Matteo Salvini (foto LaPresse)

Dimmi che cosa vedi nel coronavirus e ti dirò chi sei

Salvatore Merlo

Da Salvini a Fassina, dai grillini a Rep., da Fusaro a Morra. Un test psichiatrico

Per governare i criteri formativi dell’identità si scende dal lettino della psicanalisi… e ci si butta sul microscopio del virologo. E così il coronavirus, nel formicolante palcoscenico nazionale italiano, è diventato più o meno come le famose macchie di Rorschach, quel test psicologico con il quale si mostra al soggetto, affetto da potenziali turbe monomaniacali, uno schizzo informe d’inchiostro: dimmi cosa vedi e ti dirò che problema hai.

  

 

Stefano Fassina, per esempio, deputato ed economista neocomunista, ieri spiegava in televisione come il virus cinese sia all’incirca il flagello sorto dall’ingiustizia del capitalismo occidentale globalizzato e senza regole. Matteo Salvini, invece, da settimane e senza posa, osserva nei colpi di tosse e nella febbre l’ovvia e nefasta conseguenza di un mondo che non erge abbastanza muri, non srotola il filo spinato, non blocca gli aerei e i treni, non chiude sufficienti porti e magari non spara nemmeno ai migranti. Ciascuno ha la sua ossessione, si sa. Come quel tale che nel film di Benigni a ogni macchia d’inchiostro urlava: “Una vagina! Una vagina!”. E infatti i Cinque stelle – gli stessi che poi mettono in dubbio lo sbarco sulla luna, ma questa è forse un’altra malattia – hanno scoperto nelle forme affascinanti e mostruose di questo virus niente di meno che la nuova frontiera della guerra fredda, lo scontro oriente-occidente, insomma, come ha detto il vicepresidente del Parlamento europeo, Massimo Castaldo, “il programma di armi biologiche segrete della Cina”.

 

Come tutti sanno, in politica le ossessioni si chiamano ideologia o autoinganni, e non sempre fanno perdere le elezioni, anzi qualche volta le fanno vincere, perché le ossessioni – lo dimostra la recente cronaca elettorale – sono contagiose (come i virus) e ingigantiscono o nanificano la realtà, deformano le categorie concettuali. Si vedrà dunque, col tempo, quanta politica starà nel brodo di coltura assieme al coronavirus. Certo le epidemie questo sono, un distillato di paure che se non governate deragliano in fissazioni, manie, sindromi psichiatriche, opportunismi e in certi casi persino in furberie. Camus descrisse la peste in una città, Orano, ma non immaginava ancora il contagio universale, la diffusione su scala terracquea e globale.

 

In un virus da pandemia c’è infatti tutto il mondo dentro. Ed è quindi forse inevitabile che il virus diventi a sua volta un mappamondo, un caleidoscopio in cui ciascuno vede se stesso, proietta i suoi tic, la sua retorica. Ecco allora il titolo di Repubblica, ieri: “Gli angeli del virus” (come diceva Pasteur, è più facile disintegrare un germe patogeno che un luogo comune), “#AbbracciaUnCinese” twittava invece il sindaco di Firenze Dario Nardella, “Fate il saluto romano che è più igienico” suggeriva Ignazio La Russa, tutte cose che se non governate si trasformano rapidamente in bizzarrie, più o meno grottesche, come quelle di Diego Fusaro, il telefilosofo che nel virus ci ha visto lo zampino degli americani interessati a “mettere in ginocchio la Cina”, o come quelle di Nicola Morra, il presidente calabrese dell’Antimafia, che ha subito paragonato la ‘ndrangheta al coronavirus (mentre più furbescamente i dipendenti dell’Ama, l’azienda della nettezza urbana di Virginia Raggi, hanno visto nell’ipotetica malattia una buona occasione per non presentarsi al lavoro).

 

Ed è straordinario e insieme perturbante – a proposito di Freud – la semplice constatazione di come questo ormai famosissimo coronavirus, morbo itinerante sulla Via della seta, sia precipitato in Italia assumendo le forme più disparate di questo vivace e variopinto paese. Avvezzi a confidare nel disegno imperscrutabile di Dio e a fidarci dei professori di storia e degli ingegneri sociali, dei preti spretati e dei laici appretati, con raccapriccio si deve forse accettare che l’identità di ciascuno si riveli anche attraverso le lenti di un microscopio molecolare. Alla fine sarà il virus a definire noi, a isolarci in laboratorio.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.