Lasciare le logiche nazionaliste, parola di imprenditore
A parte il fatto che mi appare surreale parlare di nazionalismo quando i savonesi guardano ancora con un briciolo di rancore i genovesi per avergli interrato il porto nel 1528, la situazione rischia di essere, come spesso accade, grave ma non seria. Sarebbe ora di convincerci che la torta va prima creata che divisa e che viviamo in un paese senza materie prime che sostanzialmente vive della propria genialità di trasformatore di materie altrui.
In un contesto in cui l’attuale presidente degli Stati Uniti (con forti probabilità di rielezione) pensa che vada combattuta una guerra commerciale con la Cina per la leadership mondiale ma che non valga più la pena di essere il guardiano del mondo lasciando quindi spazi a Russia e a Turchia su aree complesse come il medio oriente, non è neppure immaginabile provare a competere con logiche di chiusura nazionale.
A partire dalla dimensione delle nostre imprese per proseguire con quella della sfera di influenza del nostro continente, fatichiamo a essere competitivi per un nanismo che è stato eccellenza in altre epoche ma risulta solo un handicap nel mercato odierno. Prova ne sono le tante aziende nate dalla genialità italiana che hanno dovuto seguire un obbligato percorso di crescita che le ha portate spesso a cambiare azionista di controllo migrando verso paesi più abituati alle grandi dimensioni. Sfugge quali potrebbero essere i vantaggi, in un simile contesto, di una maggiore chiusura delle politiche nazionali. Il dato che emerge è però quello di un malcontento sempre crescente che facilmente si incanala nella logica della chiusura in se stessi e nella difesa dei propri interessi. Forse è il caso di smettere di catalogare questa tendenza come la risibile reazione di un popolo rozzo e incivile ma cominciare a dare risposte e soluzioni a un malessere che comunque esiste.
Sarebbe il caso di spiegare meglio e con dati puntuali come l’epoca che viviamo sia la più florida e profittevole che l’umanità ricordi.
Sarebbe il caso di spiegare come la demografia sia spietata nel testimoniare che solo con l’apertura agli altri le nostre popolazioni (che sembrano aver scelto l’estinzione con determinazione assoluta) possono sperare di vedere soddisfatti bisogni ai quali non vogliono più provvedere direttamente.
Anche se sembra ogni tanto che la memoria storica fatichi a radicarsi, come talune derive verbali testimoniano, voglio vedere segnali che una certa sensibilità non sia perduta. Alcuni eccessi delle ultime campagne elettorali non hanno sortito gli effetti sperati ma hanno anzi cominciato a generare un rifiuto del populismo più facile e becero. Credo che siano segnali preziosi che un certo messaggio fatto di dati concreti e riscontrabili possa cominciare a far presa e che nonostante le nuove forme di comunicazione abbiano bisogno di immediatezza e semplicità ci sia ancora spazio per il ragionamento.
Tante sono le motivazioni che spingono ad abbandonare le logiche nazionaliste ma da imprenditore voglio sottolineare quella pratica della competitività delle nostre aziende che solo una facile ma pericolosa illusione potrebbe far credere che possano gareggiare senza un’appartenenza forte a un sistema democratico grande, libero e coeso.
L'editoriale dell'elefantino