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La sinistra deve fare i conti con il superamento del suo modello sociale

Carlo Cerami

C’è senso di paura e smarrimento. La dimensione nazionalista ha senso soltanto in chiave protezionistica e dunque non può che premiare le destre. L’Italia non cresce da troppo tempo e la sinistra non fa i conti con il superamento del suo modello sociale fondato su tassazione e redistribuzione attraverso il welfare. Permangono schemi di azione tradizionali, a partire da quello di ritenere discriminante la distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, cioè precario, fragile, esposto ai venti bizzarri del mercato.

 

La sinistra new socialist ha il merito di criticare l’abbandono di presidi di lotta tipici delle sinistre. Del resto la reazione dei cosiddetti mercati al successo dei progressisti la dice lunga sul cambio di fase storica. E tuttavia anche la sinistra, che mette in discussione con buone ragioni le derive della globalizzazione, non ha ancora trovato la chiave con cui affrontare la nuova fase, mescolando interventismo pubblico neostatalista, che non poggia su basi credibili di finanza pubblica, e cultura antagonista su tratti ormai recepiti nel vissuto comune, tra cui quello che intraprendere e affermarsi è una occasione di emancipazione, peraltro più affine al nomadismo inevitabile indotto dal mutamento tecnologico e dal mercato globale di beni e servizi. Insomma tutti ambiscono alla stabilità economica, non alla stabilità del posto di lavoro.

 

Il rischio è che la partita si faccia su Salvini, interprete autentico e abile dell’Italia della paura, cioè individuando il nemico e costruendo su di lui e attorno a lui la compagine alternativa.

 

Serve una risposta che metta in sintonia i valori della civiltà liberale e progressista, nella forma socialdemocratica e popolare affermatasi in Europa nel secondo dopoguerra, e la necessità delle persone di avere stabilità e crescita economica e solide prospettive per il futuro. Solo così si spiega la resistenza delle aree rurali e periferiche rispetto ai centri urbani integrati nel circuito delle città globali a dare credito alle proposte della sinistra.

 

Le grandi proposte dei populisti premiate dagli elettori alle scorse elezioni sono tre: il reddito di cittadinanza, che punta dritto al superamento della civiltà del lavoro stabile; la flat tax per i redditi medi, cioè semplificazione e riduzione fiscale in un’epoca di aumento delle spese formative, sanitarie, tecnologiche; la sicurezza dei confini nazionali contro gli ingressi illegali.

 

Non credo che su questo ingente materiale di confronto si possa rispondere dicendo solo che servono più spese per la cultura, più incentivi per la crescita e più umanità nell’accoglienza, come si è fatto e si fa da anni a sinistra.

 

Serve una risposta più aggiornata, che induca a cambiamenti più netti, a discontinuità nelle policies, senza abdicare in alcun modo a valori e ideali, ispirate ai concetti classici della Rivoluzione francese, come declinate dal socialismo umanitario e democratico in Europa. Alcune più liberali, altre più socialiste. Alcune più a destra, altre più a sinistra.

 

E dunque, per cominciare, assumere che il reddito di inclusione deve tendere a sostituire i meccanismi tradizionali di sostegno al lavoro; che la semplificazione fiscale fino a 100.000 euro di reddito deve essere un obiettivo della sinistra, ancorché modulata nel rispetto della progressività fiscale; che la cooperazione internazionale e la regolazione dei flussi deve scommettere sull’agevolazione degli ingressi e l’eliminazione della tratta delle persone.

 

E poi le proposte originali. Riscatto della scuola pubblica, della sanità pubblica, anche laddove sono in crisi, nella provincia italiana e nelle città del sud. Si torni a far coincidere la frequenza scolastica pubblica con l’ascensione sociale. La casa a basso costo e di qualità, per tutti: anziani, giovani, lavoratori temporanei.

 

Serve una economia sociale di mercato, sfruttando risorse pubbliche e private messe in tensione dalla crisi e mai così disponibili, se dirette da una forte azione di governo, a scommettere sulla ricucitura della nostra società. Sul rilancio dell’Italia dei comuni, delle zone montane e litorali, dei centri minori, delle periferie. C’è molto da fare, e dunque anche grandi opportunità di crescita e di profitto.

 

Da ultimo, una leadership giovane e credibile, solida e politica, che conosca i nuovi linguaggi. E si sacrifichi, per il suo paese. Perché la politica è duro lavoro quotidiano, competenza e conoscenza, e vogliamo ridarle il ruolo che merita nella società: il primato. Perché il populismo nasce anzitutto dall’antipolitica, e genera classi dirigenti inadeguate. Farsi governare dai migliori, se non proprio dal Migliore.

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