Così la baruffa sulle regionali spinge il M5s verso la scissione
Col Pd o senza? In Campania e Liguria grillini allo sbando. E al Senato Romani è pronto: “Sulla prescrizione diamo una mano”
Roma. A metà pomeriggio, in mezzo al Transatlantico, Luciano Cantone interviene con disillusa nettezza a troncare la discussione dei suoi colleghi: “La verità, ragazzi, è che siamo destinati a scomparire”. E subito il suo fosco presagio precipita sulle convulsioni dei compagni del M5s, che si struggono nel tentare di capire il perché dell’irragionevole strategia in vista delle regionali. C’è Carlo De Girolamo, romagnolo, reduce dalla sciagurata campagna emiliana dove un accordo col Pd non si è voluto trovarlo: “Col risultato che ora potremmo stare in giunta con Bonaccini, e invece…”. E poi c’è Marco Rizzone, che invece l’accordo col Pd vorrebbe stringerlo in vista delle elezioni nella sua Liguria: “Giovedì c’è un vertice con Vito Crimi, sul tema, ci proveremo fino all’ultimo”. Del resto, i sondaggi che anche i leghisti hanno in mano dicono che, in caso di alleanza tra Pd e M5s, la sfida sarà incerta; se invece andranno tutti divisi, per Giovanni Toti sarà fin troppo semplice ottenere un secondo mandato. E però, contro ogni logica, la candidata presidente è Alice Salvatore, espressione di quella ortodossia grillina che considera come un’abiura qualsiasi intesa locale col Pd. Al punto che un’altra parte degli attivisti, nel Savonese, hanno pensato bene di dileggiarla sulle note, manco a dirlo, di De Gregori: “Alice ignora i fatti e i fatti parlano da soli, il Movimento sta virando verso Sansa”. E per i corridoi di Montecitorio è tutto un darsi di gomito: “L’hai sentita? Ah ah”. Il che spiega insomma perché parlamentari e consiglieri regionali liguri chiederanno una nuova votazione su Rousseau, per individuare magari un nuovo candidato civico, magari da individuare proprio in quel Ferruccio Sansa, giornalista del Fatto, citato nella canzone. “Francamente c’è un tale caos che può succedere di tutto, anche perché Beppe Grillo pare non voglia intervenire”, dice Sergio Battelli, deputato ligure tra i più vicini al “gigio magico” di Di Maio, quando gli si chiede se non intravveda il rischio di una rottura.
La stessa che del resto si sta già consumando in Campania. Dove, domenica scorsa, l’assemblea degli attivisti ha sonoramente bocciato l’ipotesi di un’alleanza col Pd in vista delle regionali. Per la gioia di Luigi Di Maio, che alcuni portavoce locali volevano convincere a convocare immediatamente una votazione su Rousseau, sull’onda dell’entusiasmo duropurista, e chiudere definitivamente qualsiasi ipotesi di convergenza. C’è voluta la mediazione di Roberto Fico, per provare a tenere ancora aperti i giochi. “Magari, se il candidato unitario sarà il nostro ministro Sergio Costa, gli attivisti ci ripenseranno”, dice infatti il capogruppo al Senato Gianluca Perilli. Ma la speranza del presidente della Camera passa in realtà, paradossalmente, per una strada autolesionista. Perché Fico vuole a ogni costo che la sua regione diventi il laboratorio della nuova cosa giallorossa, e spera che a far ricredere molti dei militanti ci pensi il disastro annunciato delle suppletive del 23 febbraio, necessarie per riassegnare il seggio senatoriale rimasto vacante dopo la scomparsa del grillino Franco Ortolani. In quel collegio partenopeo, dove il M5s il 4 marzo 2018 ottenne oltre il 60 per cento dei voti, stavolta si rischia il tracollo: anche perché il Pd, col consenso dello stesso Fico, ha candidato Sandro Ruotolo. “E molti dei nostri – dicono i deputati campani – hanno fatto sapere che voteranno per lui”. Compreso Mariano Peluso, surclassato nelle primarie online per quel collegio da tal Luigi Napolitano, compagno di università, manco a dirlo, di Di Maio. “E capisci che quando il secondo classificato vota per gli altri, la divisione è nei fatti”, commenta amaro Alessandro Amitrano, volto istituzionale del M5s alla Camera.
Anche perché, come se non bastasse, oltre alle regionali c’è l’agenda di governo ad agitare gli animi dei grillini. Gianluca Castaldi prova a mostrare i muscoli: “Sulla prescrizione non possiamo cedere, semmai la chiudiamo alla Camera senza i renziani e poi al Senato lo costringiamo a prendersi le sue responsabilità”, dice il sottosegretario grillino. “Certo, se si andasse al voto noi conteremmo morti e feriti, ma sopravviveremmo. Renzi scomparirebbe del tutto”. E però, a pochi metri da lui, Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd che antirenziano lo è almeno quanto Castaldi, confessa però che “senza un passo in avanti di Bonafede, senza una modifica significativa del lodo Conte, per noi è impossibile trovare un accordo”. Dovranno ingoiare amaro, insomma, i grillini. “Alla fine, Conte dovrà essere bravo a fargli accettare quantomeno un rinvio”, dice Bruno Tabacci, che delle capacità di mediazione del premier è un fermo sostenitore. “Non esiste”, s’impunta Michele Gubitosa, deputato molto vicino a Di Maio che la mette giù brutale: “Se iniziamo a cedere su tutto, finisce come con la Lega, e cioè che il Pd ci asfalta”. E l’opposizione a qualsiasi compromesso, sul tema, è tale che anche quei senatori centristi di Forza Italia sono già stati allertati: “E certo che la diamo una mano per difendere la civiltà del nostro paese da questo obbrobrio”, dice Paolo Romani, animatore della fazione moderata, quando lo si interroga su un loro possibile intervento a sostegno di chi vuole arginare la barbarie giustizialista del M5s. Il che ovviamente, viene accolto con prevedibile senso della misura da Barbara Lezzi, la senatrice grillina anti Ilva, che sventola minacce di abbandono dal gruppo: “Revoca delle concessioni e prescrizione non sono negoziabili”, dice la ex ministra. Evocando, malgré soi, l’altra inevitabile disfatta grillina. Perché, come sulla questione della giustizia, anche sulla revoca delle concessioni ad Aspi, Pd e Iv sono di fatto concordi nel ritenere insostenibile dal punto di vista economico prima ancora che da quello giuridico.