(foto LaPresse)

Come se la ride Di Maio a osservare Crimi, Taverna e Toninelli

Salvatore Merlo

Nella terra dei ciechi beato il monocolo. “Li lascio fare e mi richiameranno”, diceva a gennaio. Potrebbe succedere davvero

Roma. Beati monoculi in terra caecorum. Se fosse appena plausibile sospettare che Luigi Di Maio conosca un po’ di latinorum non avremmo dubbi: ecco cos’ha pensato el pibe de oro di Pomigliano quando ha deciso di far finta di dimettersi, quando al Tempio di Adriano, qualche settimana fa (come dimenticarlo?), si è sfilato la cravatta e con un franco sorriso pieno di denti – simile a un elegante antropoide svegliato a fatica – ha scandito in termini di dubbia consequenzialità logica che “lascio” ma “non mollo”. Beati quelli con un occhio solo nella terra dei ciechi, dunque. Ovviamente quello con un occhio solo è lui, Giggino, il quasi normodotato del M5s, in pratica il migliore. Mentre i ciechi sono i suoi compagni di avventura, i mezzi leader del Movimento, cetrioli entrati in politica per una di quelle combinazioni culinario-cabarettistiche così di moda oggi, gente tipo Crimi, Morra, Taverna e Toninelli, capetti sempre più incartati e inconsapevoli (ieri per dire, Crimi e Toninelli, assieme ad altri, si sono incontrati per alcune ore dovendo decidere la strategia elettorale in Liguria. Ovviamente non sono riusciti a decidere niente, malgrado la “concentrazione” dell’ex ministro dei Trasporti. Anzi per la verità una cosa l’hanno decisa: “Ci vediamo lunedì prossimo”).

 

Ovviamente Giggino li osserva e gongola. Li guarda e gode. Li ascolta e ride. Non gli pare vero. Basta andarsi a cercare uno qualsiasi dei collaboratori di Di Maio, o uno dei suoi parlamentari-maggiordomi, basta osservare il volto invitante al compatimento di uno come Michele Gubitosa, per precipitare in un vasto oceano di sospiri, braccia spalancate, sorrisetti, e un frasario costernato e cipiglioso, del genere signoramia. “Le cose vanno malissimo. Questi non ne azzeccano una. Oddio che disastro. Quando c’era Lui…”. E allora giù con la litanìa intorno al crollo delle iscrizioni dei meetup, dati ovviamente inverificabili (vista la notoria opacità dei meccanismi grillini), numeri gassosi che ieri dava pure il Corriere della Sera, “mille attivisti persi in sette giorni”. E’ d’altra parte frenetica la comunicazione da irridente megafono che Di Maio ha messo in piedi intorno agli sfracelli veri e presunti dei suoi amici e colleghi del Movimento. C’è da dire che non sarebbe nemmeno necessario insufflare troppo i quotidiani e le televisioni, né caricare a pallettoni deputati e addetti stampa, perché, come ha detto tra gli altri anche Matteo Orfini osservando i ministri grillini del governo che pure lui sostiene: “In effetti con questi finisce che rimpiangeremo Di Maio”. Il monocolo nella terra dei ciechi. Non un ciclope alla Polifemo, ma nemmeno un nano da giardino finito per sbaglio nello scatolone del Parlamento come quegli altri. I mezzi leader, appunto, quelli che intanto si stanno godendo l’illusione del comando, impegnati ciascuno ad accarezzare le proprie vanitose agonie. Toninelli gira l’Italia imitando Salvini su Instagram e fa pure il facilitatore – una specie di membro della segreteria politica – con la borsa da tranviere a tracolla e gli addominali tesi. Morra ha trovato la sua dimensione da supercazzolista professionale all’Antimafia e non indossa più le scarpe da ginnastica sulla giacca. Taverna è così sicura di poter dirigere il Movimento da aver ormai abbandonato non solo la tinta arancione mélange ai capelli ma pure il turpiloquio (“la nostra è una rivoluzione gentile”). E poi c’è Vito. Vito Crimi. “Sono il capo”, aveva spiegato nella sua prima intervista dopo le dimissioni di Di Maio.

 

Insomma il nuovo “capo politico” spiegava di essere il “capo” – dicesi tautologia (non è un congiuntivo) – confermando così in un lampo di non esserne del tutto persuaso nemmeno lui per primo. E sono d’altra parte tre settimane che Crimi ripete a tutti all’incirca queste parole: “Prendo io le decisioni”. Così quando qualcuno lo chiama “reggente”, lui s’indispettisce, s’arrabbia, ha come un fremito sulle labbra e subito comincia a grattarsi la testa inutilmente canuta. La sua seconda intervista è stata in televisione. “Guardi, la collocazione politica non ci interessa”, diceva Crimi. “Noi siamo nati con 5 stelle. 5 stelle non erano destra-sinistra, sopra-sotto. Le 5 stelle erano: acqua pubblica, ambiente, connettività, trasporti… eee… eee… la quinta stella eraaaa… la quinta stellaaaa… eraaaaa…”. Pare che persino Di Maio sia scoppiato a ridere davati allo schermo. E insomma Giggino, leader di scarse letture ma di prensile intelligenza, autodidatta eppure intuitivo come Calandrino, il furbo del contado, aveva capito tutto. Lui pensa così male del Movimento, o meglio lo conosce così bene, che le sue dimissioni retrattili, per non dire elastiche, fin dall’inizio sono state pensate al solo scopo di rendere ancora più inequivocabilmente chiaro quanto siano inadeguati e improbabili tutti gli altri. L’aveva detto, d’altra parte. L’aveva detto ai primi di gennaio, in uno sfogo con i suoi fedelissimi. “Lascio, e vediamo come se la cavano quelli. Poi mi richiameranno”, disse quello con un occhio solo. Potrebbe succedere prestissimo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.