La prescrizione logora
Conte e il Pd temono Renzi. Delrio ai grillini: “Ma non capite che fate il suo gioco?”. Bonafede ora tentenna
Roma. A vederlo passeggiare tutto solo, scuro in volto, in mezzo al Transatlantico, viene da pensare che no, quel ruolo da tutore non troppo gli piace. Ma sta di fatto che a Graziano Delrio, capogruppo del Pd alla Camera, tocca andarsi a prendere a uno a uno i suoi alleati del M5s e catechizzarli: “Ma lo capite – gli spiega – che sulla prescrizione più la tirate in lungo e più fate il gioco di Matteo Renzi? Chiudiamola così, sullo stop dopo il secondo grado di giudizio. Conviene a tutti, ma soprattutto a voi”.
E quelli, i grillini, un po’ restano interdetti, giustificandosi che “a noi non arriva niente, non sappiamo come la stanno gestendo i vertici”, un po’ balbettano con la rassegnazione di chi non capisce. La verità è che, dipendesse da loro, un compromesso lo si troverebbe senza troppa angoscia. Perfino Alfonso Bonafede, sotto l’opera d’incessante persuasione di Giuseppe Conte, s’è rassegnato a considerare non più difendibile la formulazione originaria della sua riforma. “Si sta convincendo”, conferma l’altro Conte, quel Federico deputato di Leu che ha elaborato una proposta di mediazione su cui, dice, “anche il ministro della Giustizia sembra convergere”. Si tratterebbe, in sostanza, di stoppare la prescrizione solo in caso di condanna in primo e secondo grado. Il problema, però, è che Luigi Di Maio quel compromesso non lo vuole: né quello, né altri. Gioca al rialzo, il ministro degli Esteri, con l’atteggiamento di chi non ha altra apprensione che quella di far vedere che da quando non c’è più lui, a reggere le sorti del M5s, tutto va a ramengo. Anche per questo, dicono, è tornato a chiamare deputati e senatori: per sondarne gli umori, e magari per contare le truppe. “Erano mesi che non mi chiamava”, sorride Gianluca Vacca.
“E non si accorge, Di Maio, che comportandosi così fa esattamente il gioco di Renzi”, allarga le braccia Andrea Orlando. Il quale sa che, del resto, di fronte all’intransigenza ottusa del grillino, anche l’irremovibilità dell’ex premier verrebbe legittimata. E ne scaturirebbe una guerra di logoramento dagli esiti imprevedibili. Non solo al Senato, dove i renziani sono decisivi ai fini della maggioranza. E neppure solo in caso di voto in Aula, a Montecitorio, del dl anti Bonafede del forzista Enrico Costa, in programma il 24 febbraio con tanto di possibile roulette russa dei voti segreti. Le insidie, alla Camera, potrebbero arrivare ben prima. Se non verrà trovato un accordo prima, lunedì le commissioni Bilancio e Affari costituzionali si ritroverebbero a dover votare le ipotesi di rinvio della legge Bonafede: il lodo Annibali e quello, analogo, del radicale Riccardo Magi. E a conti fatti, il margine sarebbe di appena quattro voti, con le incognite dell’ex ministro Lorenzo Fioramonti, sempre imprevedibile, e di un paio di grillini non proprio fedeli alla linea. “Io credo che una mediazione sia opportuna per migliorare alcuni aspetti della riforma”, spiega Giorgio Lovecchio, volto moderato della commissione Bilancio. “Se fosse necessario per adottare le modifiche al processo penale, anche un rinvio di sei mesi mi sembrerebbe ragionevole”. Anche per questo in mattinata Bruno Tabacci intercetta Federico D’Incà, e insieme, la vecchia volpe centrista e il più contiano dei ministri M5s, convengono che sì, “è meglio evitare di arrivare alla conta”.
Anche perché, nel Pd, la cocciutaggine di Di Maio comincia a stancare. Certo, in commissione si voterebbe nel rispetto degli ordini di scuderia. “Ma è chiaro che tra noi riformisti c’è disagio”, confessa Emanuele Fiano. Il cui malessere nei confronti delle intemperanze del M5s fa il paio con quello di Pier Carlo Padoan e di Stefano Ceccanti. Tutti chiamati a votare in commissione, nei prossimi giorni, sul Milleproroghe. E tutti già pronti a esternare il loro malcontento verso la “linea della responsabilità”. “Di Maio – sibila Ceccanti, capogruppo del Pd in Affari costituzionali – s’illude di poter stare sia al governo sia all’opposizione”. Del resto, dopo la prescrizione ci sarà la revoca delle concessioni ad Autostrade, un dossier che perfino ai tecnici del Mise fa drizzare i capelli: “Il ministro è seriamente preoccupato per gli effetti che la revoca potrebbe avere”, dicono. E dopo Autostrade ci sarà di nuovo l’Ilva e il decreto su Taranto: e a giudicare dai toni assai accessi che hanno caratterizzato la riunione di mercoledì sera, a Via Veneto, tra Stefano Patuanelli e i parlamentari tarantini, viene da pensare che anche lì saranno rogne.
Forse è anche per questo, per scongiurare l’incancrenirsi degli opposti estremismi che concederebbe a Renzi visibilità e spazio di manovra, che Conte ha voluto convocare un vertice serale per trovare una soluzione. E così esce dal Senato, a metà pomeriggio, con l’aria di chi spera, o quantomeno di chi esorcizza le involontarie iatture dei cronisti che lo rincorrono per le scale di Palazzo Madama. E quando si sente chiedere se la riunione in questione sarà “l’ultima”, lui sobbalza pensando al peggio: “E mica dobbiamo morire tutti”, sorride. E l’indice e il mignolo delle mani si distendono in un gesto apotropaico. Perché essere scaramantici non è sempre elegante, specie per un premier, ma non esserlo, insegnava Eduardo, porta sfortuna.