Lo splendido curriculum dei due candidati alla guida del M5s
Il gran ticket formato da Appendino e Di Battista come specchio perfetto dell’incompatibilità del grillismo con la realtà
Roma. “Per la leadership prende quota l’idea di un ticket tra Chiara Appendino e Alessandro Di Battista”, scriveva ieri il Corriere della Sera dando conto della “strategia”, si fa per dire, del M5s. Ticket dunque non già sanitario ma politico, o presunto tale: la sindaca di Torino “volto del M5s di palazzo, mentre a Di Battista toccherebbe quello di anima delle piazze”.
Su Di Battista, da settimane in Iran per conto di se stesso, c’è poco da aggiungere rispetto alla leggendaria pubblicistica sul pressapochismo e il nullismo della politica italiana. Il fasciocomunista ex deputato showman è quello che più di altri rispetta i canoni del M5s, che oggi – per risollevarsi dalla sonnecchiante minorità in cui s’è infilato, quantomeno un tempo prendeva oltre il trenta per cento alle elezioni – ha bisogno di uno che salga sul palco dei comizi con il casco in mano. Dibba appunto.
Uno che recita il salmo dell’antisalvinismo ma pure dell’anti-Palazzo di marca complottista (tutto o un florilegio di attacchi al “sorosismo” e ai “poteri forti”). Ma vogliamo tuttavia prendere sul serio le intenzioni del “ticket” del M5s, dove c’è Dibba e c’è pure Chiara Appendino. Peccato che la sindaca di Torino non abbia saputo in quasi cinque anni neanche gestire una città, compito per la quale era stata eletta nel 2016 in pompa magna (si parlò pure, sull’onda dell’entusiasmo, di laboratorio torinese), figurarsi un movimento disperante che ha prima aiutato la Lega a crescere e adesso governa con il Pd per assenza d’alternativa. In un partito normale, Chiara Appendino avrebbe già difficoltà a presentarsi per un secondo mandato ma nel M5s tutto è possibile, per questo si parla di una sua possibile co-leadership nazionale.
Eppure in quasi cinque anni ha perso pezzi in Consiglio comunale e in giunta, mettendo a rischio la sopravvivenza della sua stessa amministrazione. A inizio di gennaio di quest’anno se n’è andato un altro consigliere e oggi la maggioranza della sindaca Chiara Appendino, partita nel 2016 con 25 consiglieri su 41 consiglieri comunali è ridotta a 22, Appendino compresa. I voti di margine sono soltanto due. Non solo: a luglio dell’anno scorso, Guido Montanari, già vicesindaco benecomunista nonché uno dei volti più noti del movimentismo che ha portato alla vittoria del M5s a Torino, è stato cacciato dalla giunta.
Ci sono poi i problemi giudiziari, questione molto seria per i manettari del M5s. La sindaca di Torino ha ricevuto tre avvisi di garanzia. Uno per i fatti di Piazza San Carlo (dove ha chiesto il rito abbreviato e il processo inizia venerdì), un altro per concorso in peculato, un altro ancora per il caso Ream. Secondo le accuse della procura, l’amministrazione avrebbe tolto dal bilancio del 2016 un debito da 5 milioni nei confronti di Ream, una partecipata della Fondazione Crt che avrebbe voluto investire nell’area ex Westinghouse, dove nascerà il nuovo centro congressi di Torino. Nel 2012 Ream acquisì il diritto di prelazione sulla zona e versò al Comune una caparra di 5 milioni. A fine 2013, il progetto fu affidato alla Amteco-Maiora, l’operazione è stata perfezionata alla fine del 2016, quando il Comune ha incassato una parte dei 19,7 milioni offerti dai privati. E qui sta il punto: il Comune avrebbe dovuto restituire i 5 milioni, ma la cifra non è mai stata né versata né iscritta nel bilancio. I pm hanno chiesto un anno e due mesi di condanna per Appendino e il suo assessore Sergio Rolando, un anno per Paolo Giordana. Le questioni giudiziarie manderebbero in sollucchero il M5s se riguardassero politici di un altro partito. Ma siccome le indagini sono sull’eventuale co-leader del Casalgrillo, i grillini si sentono autorizzati a fischiettare e proporre improbabili ticket.