La fine della boiata dell'uno vale uno
Provate a rifare oggi il dibattito sui vaccini. La competenza non è ancora tornata di moda ma l’incompetenza ha fatto il suo tempo e i risultati si iniziano a vedere. Politica, scienza, calcio, banche, cinema e persino Sanremo. Il contro vaffa alla cultura degli incapaci. Un’indagine
La mia vita in questo momento non mi permette di approfondire le cose che succedono più in là di quattro giorni”. Facciamo un gioco: chi l’ha detto?
1. Bugo, dopo l’esibizione al Festival di Sanremo, travolto dalle richieste di apparire in tv per raccontare la lite con Morgan. La canzone viene ascoltata ma, a parte le vendite, che vanno discretamente, ci sono soprattutto le ospitate televisive che riempiono l’agenda: quando ti ricapita un’occasione simile?
2. Gasperini, l’allenatore dell’Atalanta, dopo il sorprendente 4-1 inflitto negli ottavi di Champions League al Valencia. Ai ragazzi deve raccomandare di rimanere coi piedi per terra, mentre la tifoseria già sogna Istanbul, la finale. Meglio pensare a una partita alla volta, spiega il mister: ora c’è il ritorno, a Valencia, poi si vedrà;
3. Bong Joon-ho, il regista di “Parasite”, prima pellicola non in lingua inglese a vincere l’Oscar per il miglior film. Bong Joon-ho ha concluso il suo discorso di ringraziamento all’Academy con le parole: “Berrò fino a domani mattina”: figuriamoci se, in simili condizioni di ubriachezza e gioia incontrollata, avrebbe mai potuto fare progetti a lungo termine;
4. Mattia Santori, leader delle Sardine, intervistato a “L’aria che tira” da Myrta Merlino, che lo presenta come “la sardina più famosa d’Italia”, in risposta a una domanda sul referendum del 29 marzo. Che cosa pensa Santori del taglio dei parlamentari, che cosa voterà? Non lo sa, non ha il tempo di approfondire. E non è nemmeno sicuro che prenderà posizione: dipenderà dal dibattito interno (chissà come si svolge, il dibattito interno alle sardine: interno a che? A una chat? A una mailing list?).
Lo so: avete indovinato. Era facile, d’altronde. Le parole citate sono di Santori, che tra una manifestazione in piazza e un’apparizione in tv, a meno di un mese dall’assemblea nazionale del movimento, proprio non ha modo di studiare questa faccenda della riduzione del numero dei parlamentari. Chissà poi come e dove la studierebbe: sui libri o sui giornali? In qualche seminario o in una specie di brainstorming con le altre “6000 sardine”? Chi lo sa. Le cose che non si sanno sono molte, ahimè, e vale sempre la fulminante battuta di Massimo Troisi, ne “Le vie del Signore sono finite”: “Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere”, inutile persino provarci.
Illustrazione di Makkox
In realtà, una delle prime critiche che sono state mosse alle Sardine, quando hanno cominciato a riempire le piazze contro Salvini, la Lega, i populismi e i sovranismi, è stata quella di non rappresentare l’Italia delle periferie, dei centri minori, del Mezzogiorno povero e disoccupato, delle famiglie a basso reddito. Sono i figli, s’è detto, di quello che una volta si chiamava il ceto medio riflessivo. Questi qui leggono, insomma, studiano, navigano in rete, sono mediamente informati, e portano nello spazio pubblico istanze e sensibilità sui diritti, sull’ambiente, sul mondo giovanile, che sono culturalmente mediate.
Proprio perciò viene voglia di dire: manca un ultimo pezzo. Manca la competenza politica, tema per approfondire il quale ci vogliono ben più di quattro giorni: occorre tornare indietro di ventitré anni. L’ultimo che ha osato farne l’elogio è stato infatti Massimo D’Alema. Castello di Gargonza, addì 9 marzo 1997. Apriamo le virgolette, e sentiamo: “Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali.
E fino a questo momento non conosco società democratiche che hanno potuto fare diversamente. L’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico, per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto dittature sanguinarie o Berlusconi, e il ‘comitato’ è un sottoprodotto rispetto a queste due tragedie”.
Che cosa c’era di sbagliato nella “spigolosa” posizione di D’Alema? Umberto Eco, che a Gargonza ci andò, rispose in seguito a questa domanda, sostenendo che con il suo “altezzoso monito” l’allora segretario del Pds aveva rotto “il legame che si era instaurato nel 1996 tra mondo politico e società civile”. Ruppe il giocattolo dell’Ulivo, voleva dire il professore piemontese. D’Alema sbagliava, secondo lui, a pensare in termini di pura contrapposizione il rapporto tra la sfera dei partiti e “gli elementi professionalmente non politici” a cui bisognava invece dar voce: non è che al di fuori dei partiti ci fosse solo “l’assemblearismo sessantottesco”, c’erano anche “rappresentanza professionali, circoli culturali, gruppi di volontariato”, tutte realtà che non solo non hanno nulla a che vedere con il berlusconismo (che per Eco aveva significato nella storia di questo paese “l’opposto di una mobilitazione della società civile”), ma che non hanno neanche mai minimamente pensato di “opporsi ai partiti politici”. Il che sarà pure vero, ma dopo quasi un quarto di secolo, in cui non l’opposizione, ma proprio l’ostilità ai partiti politici e alla politica come professione è cresciuta a dismisura, viene voglia di chiedersi se davvero ci sia da scommettere con tanta fiducia sullo “spontaneo aggregarsi di gruppi diversi”, come scriveva speranzoso Eco. Lui contava gli anni di distanza dal ferale discorso di Gargonza: quindici, diceva (arrotondando). Per poi concludere fiducioso: vedo finalmente riannodarsi il legame spezzato a sinistra fra politica e società. Quel che vedeva nel 2011 erano, evidentemente, i primi Vaffa Day: non ancora Toninelli ai Trasporti o Di Maio agli Esteri, ma già l’annuncio – se avesse voluto studiare meglio la cosa – dell’uno vale uno grillino e, scrutando un po’ più lontano, la spettacolare vittoria del dilettantismo politico nell’elezione generali del 2013. Con tutto quel che ne è seguito.
E oggi? Oggi, forse, qualche segno di resipiscenza si coglie, qua e là. Tenete da canto, per ora, gli spigoli di D’Alema e considerate un paio di esempi. Dicevamo Sanremo. Beh: Amadeus è un fior di professionista e i numeri son lì a dimostrarlo: ha fatto un Festival quasi perfetto. Certo, può sempre saltar fuori un Red Ronnie che gli rilascia la patente di “bravissimo presentatore” solo per aggiungere subito dopo che “non capisce un cazzo di musica”, e quindi come diavolo può fare il direttore artistico, ma concediamolo: non si può fare contenti tutti. E poi, per un Red Ronnie che sbrocca, c’è un Renzo Arbore al quale la settimana sanremese è piaciuta molto. E siccome il Festival di Sanremo è anzitutto uno spettacolo per la tv e come tale va giudicato, Red Ronnie può pure mettersi l’anima in pace: ha ragione Arbore, che di televisione ne capisce, ad apprezzare, non lui a mugugnare. Infine, anche la critica musicale ha premiato il vincitore, Diodato, quindi direi che possiamo chiuderla qui.
Altro esempio, un po’ più probante: il coronavirus. Provate a rifare il dibattito sui vaccini ora, con decine di milioni di cinesi in quarantena, città ridotte a fantasma, la Diamond Princess da giorni alla fonda nel porto di Yokohama e i laboratori di tutto il mondo impegnati nella ricerca spasmodica di cure. Vedete oggi che effetto sconsolante fa l’affermazione: “Al momento, non esistono vaccini”. Purtroppo non c’è proprio da esultare, e su questo sono tutti concordi. Nemmeno il più spericolato dei conduttori televisivi (e ce ne sono) ha infatti ancora pensato di allestire un talk show con sobri vaccinisti da una parte e, dall’altra, invasati antivaccinisti che se la prendono con le multinazionali del farmaco e propongono di affidarsi a improbabili medicine alternative (Quando questo format fintamente pluralista sarà esaurito, non sarà ancora il canto del gallo del positivismo o la fine di un lunghissimo errore e l’apogeo dell’umanità, ma ci mancherà poco – non me ne voglia Nietzsche).
Certo, uno può sempre dire: la fai facile tu, dopo tutto si tratta di scienza, lì le competenze sono certificate. Fino a un certo punto, in realtà. Ha fatto notizia la recente pronuncia della Corte d’appello di Torino, che ha riconosciuto il risarcimento per infortunio sul lavoro per un caso di tumori cerebrali che, a detta dei giudici, sarebbero insorti a causa dell’uso prolungato di telefoni cellulari. Ne ha parlato Luca Simonetti su questo giornale: se si va a leggere la perizia tecnica su cui è fondata la sentenza, si vedrà che essa cade appieno nella fallacia sapere-potere, che per Maurizio Ferraris è stata “l’argomento principale con cui il postmoderno si è impegnato a mettere fuori gioco l’illuminismo”. Vale a dire: siccome l’organizzazione del sapere scientifico è legata a determinati assetti di potere (e come potrebbe non esserlo, dati i costi della ricerca in campo medico), si dirà che i risultati scientifici sono influenzati e distorti dagli interessi in gioco. Con questa motivazione, i periti a cui si sono rivolti i giudici piemontesi hanno creduto di poter giudicare inattendibile, e quindi accantonare, gran parte della letteratura scientifica di merito, perché prodotta e sostenuta da finanziamenti privati. Ovviamente non è così, perché non basta avere interesse a una cosa per dimostrare che essa è vera, così come non basta guardare chi mette i soldi per indovinare cosa uscirà dai laboratori, sicché sarà certamente buona cosa sapere chi mette i soldi (cultura e critica democratica), ma anche attendere con probità di ricercatore i risultati di laboratorio (cultura e razionalità scientifica). Intanto, però, quel tipo di perizia gira ancora nei tribunali italiani.
Figuriamoci, però, cosa succede se a parlare non è uno scienziato, un medico, un biologo, quando non sono disponibili risultanze empiriche: chi stabilirà allora cosa è vero, cosa è giusto, cosa è bello? Chi sarebbero i competenti, in questo caso? La democrazia sembra sia stata inventata proprio perché c’è qualche difficoltà a far valere una qualche specifica competenza nelle cose della politica (come dell’arte, o della morale). E, all’inverso, ogni appello alla competenza sembra ridurre gli spazi democratici: se dobbiamo stare a sentire quel che dicono i tecnici, gli esperti, gli scienziati, quale ambito di decisione rimane al popolo sovrano? E che sovranità è quella, di chi deve limitarsi a dire di sì al parere recato dall’esperto?
È una vecchia questione, tanto vecchia che la si ritrova già in Platone. Il filosofo non ci poteva credere: quando l’Assemblea deve ristrutturare il porto del Pireo si affida agli ingegneri, quando bisogna redigere un piano di battaglia chiama gli strateghi militari, mentre quando si tratta di ben deliberare sulle cose della città, ecco d’incanto che tutti prendono la parola. Il ciabattino, che solo di scarpe può dirsi esperto, prende la parola pure in affari di giustizia: ma che ne sa? Che volete che sappia della sospensione della prescrizione? (No, la prescrizione non c’era, ad Atene: mi sono concesso un piccolo anacronismo). E’ noto quale fosse la soluzione, per Platone: finché i filosofi non saranno re, o i re filosofi, non v’è speranza che la giustizia regni nella polis. Naturalmente, era una soluzione assai poco democratica, per non dire che non lo era affatto. Ma consegnava al pensiero dell’occidente un problema non da poco: se vuoi che siano i cittadini in assemblea a decidere, allora saranno gli incompetenti; se invece vuoi una decisione presa da competenti, allora non sarà democrazia.
Per sottrarsi a un simile dilemma ci sono in realtà diverse strade. La prima consiste nel negare puramente e semplicemente che vi siano competenze indiscusse, riconosciute e riconoscibili, alle quali affidare la deliberazione in materia politica. In democrazia tutti partecipano alla decisione perché nessuno ne sa più degli altri. Senza questa premessa scettica e relativistica, non avrebbe senso affidare la decisione al numero, alla maggioranza. Questa era, per esempio, la convinzione di Hans Kelsen, forse il più grande giurista del secolo scorso, che difendeva però una concezione pilatesca della democrazia: ognuno persegua pure, in cuor suo, la verità e il bene.
Ma il potere politico può e deve lavarsene le mani: ogni atteggiamento diverso sarebbe impositivo e non democratico.
La seconda via, piuttosto drastica, consiste nel tenersi strette le competenze, e rinunciare alla democrazia: in fondo, non sarà un pochino sopravvalutata? E’ quello che devono pensare in Cina, dove hanno volentieri importato modelli economici dall’Occidente, ma non modelli politici. Hanno detto di sì al capitalismo, ma non alla democrazia. Una testa, un voto? Non è detto che funzioni, dipende dalla testa. In un libro recente, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Daniel A. Bell ha invitato a guardare alle istituzioni politiche cinesi rinunciando al comodo pregiudizio secondo il quale la democrazia liberale occidentale – con il voto universale libero e segreto, i diritti individuali, le libertà politiche e civili, il rispetto delle minoranze, eccetera eccetera – sarebbe il migliore dei regimi possibili. Magari in Cina il sistema politico funziona meglio, chissà. Magari lì viene premiato il merito: può darsi. Magari vi sono determinate pratiche, adottate in quel paese, che potrebbero “rafforzare una pubblica amministrazione professionale e competente e conferire poteri a esperti in ambiti ristretti”. Potrebbero, insomma, correggere le derive democraticistiche – oggi diciamo volentieri e più schiettamente: populistiche – a cui le democrazie sono inevitabilmente esposte, con quella fissa del suffragio universale.
Vi è poi una terza via, che si ispira al mito di Prometeo raccontato da Protagora (in un dialogo di Platone: il quale – sia detto en passant – sarà stato anche poco democratico, ma ai sofisti suoi avversari ha concesso non poco spazio nei suoi scritti). Cosa dice il mito, in questa versione? Che nella distribuzione dei beni alle stirpi mortali, gli animali ebbero in dote facoltà e istinti naturali, mentre gli uomini ricevettero dagli dèi il dono della tecnica (non fu propriamente un dono, per la verità, bensì un furto bello e buono: Prometeo sottrasse il fuoco a Efesto e la perizia tecnica alla dea Atena: ma questi, per i nostri scopi, son dettagli). Dopodiché gli uomini dovettero pure mettersi insieme, e allora Zeus diede loro “rispetto” e “giustizia”. Li diede a tutti, ed è per questo che tutti partecipano alla decisione politica.
La soluzione di Protagora non è praticabile tal quale, perché nessuno si fa più abbindolare da un mito. Ma la sua variante progressista, illuminista, umanitaria, ha messo al posto del mito l’educazione del cittadino, e la cosa è andata. Questa abile operazione è riuscita nella Francia laica e rivoluzionaria, una volta però che ci si accorse che il popolo, nella sua versione giacobina, al centro della piazza democratica può mettere pure la ghigliottina. Sentite allora la lezione che trasse Victor Hugo dalla storia di Francia, qualche decennio (e un’altra rivoluzione) dopo: “Occorrerà dunque, non si insisterà mai troppo su questo punto, illuminare il popolo per poterlo un giorno costituire”. Vale a dire: prima di mettere nelle mani del popolo un potere sovrano, costituente, procuriamoci un popolo istruito, educato, acculturato, competente. Hugo prosegue: “La Camera, direi quasi il trono, deve essere l’ultimo gradino di una scala il cui primo gradino è la scuola”. Vale a dire: prima di farlo sedere in Parlamento, e di conferirgli il potere legislativo, facciamolo sedere in aula, tra i banchi, e diamogli quaderni e penna. (Hugo non ha avuto la possibilità di passare in rassegna i curriculum dei nostri governanti, com’è noto). Infine, sentenzia il grande romanziere: “Non chiedete diritti per il popolo fintantoché questi chiederà teste”. Vale a dire: se chiedete al popolo se sia o meno favorevole alla pena di morte, oggi risponderà: favorevole. Allora non chiedeteglielo, dice Hugo (di cui stiamo leggendo proprio gli scritti sulla pena di morte e che della sua abolizione fece la battaglia di una vita); non dategli il diritto di decidere sulla vita o la morte di un uomo – e si badi: si tratta del cuore, o della testa, del potere politico, dell’intimo segreto di ogni sovranità –, non dateglielo, questo diritto, prima che abbia maturato la giusta educazione morale.
Ora, su quel che viene prima e quel che viene poi si può discutere, e per esempio ritenere, facendo un passo oltre Hugo, che la democrazia è proprio la palestra di formazione di quella sensibilità fraterna, morale, umanitaria (democratica, insomma) che Hugo voleva che il popolo avesse. Si diventa citaredi suonando la cetra, diceva Aristotele, e allo stesso modo si diventa democratici non prima, ma solo esercitando la democrazia. Resta tuttavia l’idea – resta a noi, resta a una concezione non meramente formale del diritto e della democrazia – l’idea che essa vada di pari passo con l’istruzione, la formazione, la cultura, la crescita di un’opinione pubblica informata e la diffusione di quel genere di competenze trasversali – come le virtù del rispetto e della giustizia di Protagora, anche se oggi le chiamano “soft skills” – che insegnano, tra le altre cose, anche come e quando lasciare spazio e peso ai tecnici e agli esperti, e in ogni caso danno un sano nutrimento intellettuale alle teste che devono votare.
Ma c’è un’altra via ancora, che pure prova a tenere insieme competenze e democrazia, dandogli però la forma di una robusta organizzazione sociale, politica e istituzionale. In un libro recente, il politologo francese Pierre Rosanvallon si è interrogato sui molti modi in cui si articola oggi la legittimità democratica. Il voto, va bene, bene la sovranità popolare e bene il Parlamento. Ma poi, con l’intento di completare una ricognizione della democrazia così come oggi effettivamente funziona, Rosanvallon annovera fenomeni – li richiamo per titoli – come la formazione del potere amministrativo, delle burocrazie, che ha storicamente accompagnato l’evoluzione dello stato moderno, o le autorità indipendenti (tra le quali Rosanvallon include anche le Corti supreme), autorità tecniche che costituiscono un tratto imprescindibile dell’evoluzione democratica secondo novecentesca, o ancora quelle che chiama istituzioni dell’interazione, espressione con la quale allude agli elementi in cui, nella pratica, si svolge e articola l’esercizio effettivo dell’arte di governo, quando si fa prossima alle particolarità sociali. Pensiamo ad esempio alle commissioni in cui si fanno confluire, insieme ai pareri delle comunità locali, i pareri dei tecnici su determinate questioni rilevanti per quelle comunità.
Ora, l’aspetto notevole di questa descrizione è che viene fornita con l’idea – ripeto – che gli elementi reperiti sulla mappa della democrazia contemporanea possano offrire una nuova articolazione/differenziazione della legittimità democratica, e che dunque la legittimità non provenga più dalla sola (stavo per dire: dalla mera) consacrazione popolare. Centralità del Parlamento, ok: solo che oggi le democrazie appaiono decentrate, sino al punto di suggerire a Rosanvallon l’espressione impegnativa “nuova età della legittimità”, che può essere considerata appropriata solo se la carta della legittimità non viene più giocata solo al tavolo del potere, cioè dell’autorità e della sovranità, ma anche su quello del sapere. Dove siedono per esempio gli avvocati e i giudici, quando si tratta di prescrizione (e dàlli: è proprio una fissa, la mia!) o i medici, quando si tratta di coronavirus, o i climatologi, quando si tratta di riscaldamento globale e della neve che sulle piste non c’è.
Da qualche parte, infine, lasciamo che siedano pure i politici di professione. Tra la politica come improvvisazione e la politica come professione, lo so che sembra brutto ma io continuo a preferire la seconda, con tutti i suoi spigoli. D’Alema, certo, ci metteva del suo: bisognava rivendicare il primato dei partiti anche per azzoppare Prodi, che un suo partito non ce l’aveva. Detto questo, però: ammettiamolo, lo spigolo è solo il nome che prende la realtà quando ci sbatti contro: quando ti accorgi che non basta la democrazia diretta, il referendum online, lo streaming, quando persino la limitazione del numero dei mandati parlamentari ti appare, presa per sé sola, una regoletta stupida. Buona, tanto per fare un esempio e limitarsi agli ultimi presidenti, solo per non eleggere Mattarella o Napolitano, che sul Colle son saliti con un bel po’ di esperienza politica e parlamentare sulle spalle.
Chi ci dovremmo mandare, invece: Claudio Bisio, come in “Benvenuto presidente!”? In quel film – che esce non a caso nel 2013, l’anno del primo trionfo grillino – il bibliotecario che finisce tra i corazzieri del Quirinale è un brav’uomo, mentre i politici di professione sono tutti corrotti e corruttori. E ti pareva: la scossa morale può venire solo da un inesperto, un incompetente, un puro folle, che si ritrova catapultato ai vertici del paese per un clamoroso errore di omonimia. Ma ora proviamo a dare la medesima scossa in altri ambiti. Togliamo di mezzo i banchieri e l’offerta di Intesa a Ubi facciamola fare a Claudio Bisio. Claudio Bisio (il suo personaggio, s’intende) mettiamolo pure alla guida degli Uffizi e, già che ci siamo, niente più Roberto Mancini: diamogli anche la Nazionale di calcio. E naturalmente affidiamogli la direzione artistica del prossimo Sanremo. Che ve ne pare? Certo, si può provare a difendere il Mancio, che come conosce il calcio lui nessuno, oppure la profonda e vasta erudizione del critico d’arte Eike Schmidt, o infine la competenza tecnico-finanziaria di Carlo Messina. Ma solo se riusciamo ad arrestare i discorsi da bar, per cui i grandi manager della finanza sono tutti ladri, gli italiani sono tutti, in potenza, commissari tecnici, mentre Eike Schmidt che competenze può mai avere, visto che “de gustibus non disputandum est”, come diceva quello?
Forse però possiamo riuscirci. Forse non siamo più il paese dove si fa spudoratamente l’elogio dell’inesperienza, come quando Grillo presentò Mattia Calise, il suo candidato a sindaco di Milano (era il 2011, l’anno in cui secondo Eco si riannodavano i rapporti con la società civile) sostenendo che “l’inesperienza è il valore aggiunto, perché un ventenne è limpido, non fa intrallazzi, non compra hedge funds”. Certo, il quadro è ancora, in larga parte, quello descritto da Tom Nichols, ne “La conoscenza e i suoi nemici”, per cui le ricerche le facciamo solo su Wikipedia, siamo sempre più spesso catturati da bias di conferma, il giornalismo e l’informazione fai-da-te dilagano, non c’è esperto che Google non ci aiuti a contraddire e Trump veleggia verso la probabile riconferma. Per Nichols, l’elemento più inquietante della situazione politica attuale è che “i cittadini non interpretano più la democrazia come una condizione di uguaglianza politica, in cui una persona ottiene un voto e ogni individuo è né più né meno uguale davanti alla legge. Gli americani ormai pensano alla democrazia come a uno stato di effettiva uguaglianza, in cui ogni opinione vale quanto le altre su quasi tutti gli argomenti del mondo”. Se questo è vero, come non dargli però un piccolo segnale di speranza: perfino i grillini si sono stufati della stupidaggine dell’uno vale uno? Il quadro è ancora quello, insomma però sta in parte anche cambiando: dopo gli anni in consiglio comunale, Mattia Calise ha pensato bene di tornare a studiare all’università (dove si è laureato, nel 2016: buona idea).
Ognuno ha i suoi piccoli segnali, peraltro. Ecco il mio: con la recente scomparsa di Emanuele Severino, se n’è andato, a detta di tutti o quasi, uno dei maggiori filosofi italiani del secondo Novecento. Gli elogi non sono quindi mancati, ma a un mese dalla scomparsa il Corriere della Sera ha pubblicato un bell’articolo di Nicoletta Cusano, sua allieva, il cui senso era: grazie molte per gli attestati di stima, però, se son veri, allora non potete cavarvela prendendo questa o quella suggestiva disamina di Severino, dovete prendere posizione rispetto al centro del suo discorso, ai suoi fondamenti teoretici. Persino in filosofia, Ecuba scacciata e abbandonata, non si tratta solo di far chiacchiere e ha qualche senso portare il discorso nel merito, usando conoscenze e argomenti, e chiedendo che il giudizio si fondi in base a quelli.
Quanto al merito, infine, e quanto ai meriti (nozione scivolosa: sarà per un’altra volta): tanto di cappello per Gian Piero Gasperini e Bong Joon-ho. Gli addetti ai lavori sanno che, nel loro campo, non hanno improvvisato proprio nulla. Al di là dell’ultimo exploit, lavorano da anni ai massimi livelli e hanno già raccolto premi per il loro lavoro. Quanto a Bugo, è un onesto professionista, che prima di questa botta di popolarità ha fatto gavetta, e percorso soluzioni e generi musicali differenti, senza mai abbandonare un certo passo sghembo e un po’ stralunato. Fra il rock, l’indie e Lucio Battisti. Ci può stare, dài. (E su Mattia Santori approfondirò un’altra volta: la mia vita attualmente non me lo consente).