Il ritorno dei media mainstream, i muri che non servono, i mercati come cure. Tre storie esemplari sul coronavirus ci insegnano che per alzare le difese immunitarie della globalizzazione occorre denunciare con forza tutte le bufale della post verità
Un articolo molto bello pubblicato ieri dal New York Times, scritto da un professore di Filosofia di nome Michael Marder, introduce nei ragionamenti legati alle conseguenze del coronavirus uno spunto di riflessione nuovo, gustoso e interessante, che ci permette di capire in che senso la storia del virus che sta purtroppo conquistando il mondo ci dice molto non solo della nostra capacità di governare un’epidemia ma anche della nostra capacità di capire il mondo all’interno del quale viviamo. Il coronavirus siamo noi, scrive il New York Times, perché, esattamente come il virus, tutti noi viviamo in un mondo interconnesso, dove i confini sono porosi, dove le barriere non esistono e dove le frontiere sono più simili a membrane viventi che a muri possenti. Ma il coronavirus siamo noi anche per un’altra ragione che vale la pena esplorare e che riguarda un ragionamento non banale che fotografa bene un fenomeno che la diffusione dell’influenza cinese sta rendendo se così si può dire virale.
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