Roma. È un conflitto di stile e di sostanza quello che si sta consumando a destra, tra la sbracatezza opportunista e la cultura di governo, tra la banderuola e il paracarro, insomma tra il piazzista col mojito e Giorgia Meloni, che ovviamente non è l’incarnazione della compostezza cavouriana ma assomiglia più alla politica che all’avanspettacolo perché ha robuste radici nella tradizione, e dietro di lei c’è Giorgio Almirante non Jerry Calà. E per capirlo bastava osservarli, ieri, in conferenza stampa al Senato, Meloni e Salvini, che si rappresentano abbracciati, e si sorridono, ma in realtà lottano avvinghiati come ben sanno Giancarlo Giorgetti, che è il saggio alla destra dello scalmanato, e Fabio Rampelli, che è invece il padrino politico della Meloni, lui che Salvini lo ha da tempo spiritosamente ribattezzato così: “Er Bugia”. Dal giorno in cui in Italia è esploso il coronavirus, la leader di Fratelli d’Italia, facendo violenza alla sua indole impetuosa, reprimendo parte del fastidio epidermico che prova per i Cinque stelle e per la “bulimia comunicativa” di Giuseppe Conte, ha subito spiegato sui giornali e in televisione che “le polemiche politiche adesso sono inutili”, “vedremo dopo”, “adesso dobbiamo collaborare”, “siamo al servizio dell’Italia”. E da lì non si è mossa. Al contrario Salvini, da bravo sciacallo, ha prima tentato di lucrare approfittando del malessere e dello smarrimento di tutti: “È così che il governo tutela la salute e la sicurezza degli italiani???”. Subito dopo però, come al mercato dei tappeti, ha provato a scippare qualcosa per sé, proponendo un governo di unità nazionale. Infine ha cambiato idea ancora una volta, ma solo quando ha visto che il gioco delle tre carte non funzionava. E dunque mercoledì ha rilasciato un’indecente intervista al quotidiano spagnolo El Paìs con la quale ha scaricato un camion di letame su quel paese (il suo e il nostro) che lui dice tanto di voler difendere.
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