Domenico Arcuri, l'uomo del Conte
Chi è l' amministratore delegato di Invitalia. Non un supercommissario antivirus ma la nemesi di Bertolaso e De Gennaro
Roma. La sinistra gli offriva un uomo d’ordine, Gianni De Gennaro, mentre la destra lo voleva convincere a prendere un uomo d’azione, Guido Bertolaso. Lui alla fine s’è scelto invece un uomo di compromesso, non un guerrigliero antivirale ma un affidabile manager di stato, un grand commis che non ama la ribalta e non intende far ombra a nessuno, tanto meno al presidente del Consiglio. Un uomo corretto ma uso a obbedir tacendo sotto tutti governi e tutti i poteri, da Romano Prodi a Silvio Berlusconi, passando per Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e adesso, appunto, anche Giuseppe Conte. E così mercoledì notte il capo del governo e avvocato del popolo ha annunciato che sarà Domenico Arcuri, cinquantasette anni, calabrese, amministratore delegato di Invitalia, la finanziaria pubblica per lo Sviluppo, a ricoprire l’incarico di commissario delegato per la gestione dell’emergenza coronavirus.
La testa ricoperta di capelli d’argento, la notevole statura, il volto dai lineamenti puliti e il naso sfrontato, Arcuri è da dodici anni l’avvolgente potenza invisibile delle crisi aziendali d’Italia, come l’imam occulto degli sciiti. Lo descrivono informatissimo, gran conoscitore delle regole e delle leggi, attivo, uomo di dati, carte e soluzioni sempre tecnicamente corrette, Arcuri non è uno di quelli convinti che solo i proconsoli risolvono le emergenze nazionali e che i codici vanno azzerati. Quando gli chiesero infatti d’intervenire in Alitalia, con i suoi fondi pubblici, lui si ritrasse, e in più di un’occasione ai tempi in cui Luigi Di Maio era ministro dello Sviluppo entrò in conflitto con le forzature scombiccherate che i 5 stelle pretendevano. Rischiando persino, forse, ma trovando subito però, tra una sigaretta nervosa e l’altra – è un gran fumatore di Marlboro rosse – protezione nella figura sempre più indipendente e ambiziosa del presidente del Consiglio Conte, lui che adesso non gli ha affidato i galloni del supergenerale inviato in guerra contro il coronavirus, che sarebbe stato il ruolo esorbitante di De Gennaro e di Bertolaso, ma lo ha incaricato di fare quel che meglio sa fare: organizzare la logistica, aiutare le imprese a produrre quei macchinari medicali di cui gli ospedali in questi giorni hanno un drammatico bisogno. Ma senza apparire. Di lato.
E infatti quest’uomo che sembra amare le donne belle, intelligenti e indipendenti – è stato sposato con Myrta Merlino, da cui ha avuto una figlia, ed è fidanzato con la vicepresidente di Confindustria Antonella Mansi – non assomiglia a nessuno dei commissari e uomini del destino che negli ultimi vent’anni hanno accompagnato le mille tragedie ed emergenze d’Italia. Non è un protagonista, non porta giubbotti, scarponcini, caschetti di plastica dura, insomma la divisa del milite della fatica, ma appartiene di più a un’antropologia sospesa tra il ministeriale e il banchiere, il consulente e il revisore di stato. Non casualmente cresciuto all’Iri, è l’uomo che all’ombra di tutti i governi e per conto di tutti i partiti al potere ha risolto molti problemi a una politica sempre più spesso alle prese con le crisi aziendali, con il pericolo dell’impopolarità nell’epoca del declino italiano.
C’è da intervenire sull’Ilva? Si chiamano Arcuri e Invitalia. C’è un problema in Alcoa? Arriva Arcuri. La Banca popolare di Bari rischia di andare a gambe per aria? Ecco di nuovo Arcuri, che con una controllata di Invitalia acquisisce una banca dieci volte più grande della controllata stessa. I critici, maliziosamente (e spiritosamente), sostengono, come ha scritto Giorgio Gandola, che “l’unica emergenza gestita finora da Arcuri riguarda una macchia sulla cravatta di Hermès durante un cocktail”. Sostengono insomma che lui le crisi le “congeli”, non le sciolga: non rilancia le aziende, ma ci mette una pezza pubblica. Dice invece di lui Carlo Calenda, che lo stima: “E’ una persona che se gli dici ‘fai’, trova il modo di fare. Rispettando le regole e più velocemente della burocrazia ministeriale. E’ ligio alle indicazioni della politica, non si allarga né persegue un’agenda per i cavoli suoi”. E insomma non è uno spavaldo, coltiva con meticolosità l’arte dell’essere contemporaneamente presente eppure assente, alle spalle dei riflettori, un passo indietro rispetto alla politica che ha servito con capacità guadagnandosene la riconoscenza. Ed è forse anche questo il segreto della sua longevità nelle stanze del potere parastatale, oltre che una delle ragioni per le quali adesso Conte lo ha scelto, preferendolo agli ingombranti De Gennaro e Bertolaso, due tenori che sanno tenere calda la scena. Occupandola per intero.