Conte, tormentato dall'ombra di Draghi, si avvia all'unità nazionale
Oggi l’incontro con le opposizioni. Il coinvolgimento del centrodestra spinge a un nuovo governo che preoccupa il premier
Roma. Se alla fine cederà, o quantomeno farà finta, sarà stato perché proprio coinvolgere le opposizioni è il modo migliore, se non l’unico, per blindare ancora un po’ la sua posizione. Perché in realtà, dipendesse solo dalla sua volontà, Giuseppe Conte la scaccerebbe come si allontana una mosca dal viso, questa idea dell’unità nazionale. Ci ha provato per tutta la settimana, resistendo finché ha potuto anche agli inviti che venivano dal Quirinale, e a cui di solito è sempre così sensibile. Anche mercoledì, a Montecitorio, s’è rifiutato di concedere quel gesto che tutti si aspettavano, quello per cui erano state fatte decine di telefonate trasversali per l’intera giornata. “Aprirà, aprirà”, avevano rassicurato i ministri del Pd ai deputati di Forza Italia, ansiosi di sentirsi invitare al tavolo condiviso per discutere del decreto “Cura Italia”. E invece niente, neanche un accenno. Al punto che a Graziano Delrio, capogruppo dem, è toccato cambiare in corso d’opera il canovaccio del suo discorso, e intervenendo in Aula dopo il premier se l’è presa lui la briga di chiedere al governo di “aprire tavoli costanti e permanenti con la opposizione sui temi fondamentali”, sentendosi arrivare i complimenti di Giancarlo Giorgetti: “Bravo Graziano”. E intanto Giorgio Mulè, forzista ben addentro alle trattative delle ultime ore, già allargava le braccia: “Poteva e doveva intestarsela Conte, l’unità nazionale. E invece, rifiutandosi, ne è diventato l’ostacolo. E l’ostacolo andrà aggirato…”.
Solo che poi è arrivato Mario Draghi. O meglio, l’ombra di Draghi, quel suo articolo sul Financial Times che a tanti – anche dentro Palazzo Chigi – è sembrato un programma da futuro premier, e che infatti Matteo Renzi ha subito inoltrato nella chat dei suoi parlamentari. E non a caso è stato quello dell’ex governatore della Bce il nome che è riecheggiato con più clamore nell’Aula del Senato, ieri. Sia nei discorsi ufficiali (quello dello stesso di Renzi, e poi Casini, e poi la Bernini, e poi addirittura Salvini), sia nei conciliaboli riservati. Come quello che Luigi Zanda ha avuto con un manipolo di suoi colleghi del Pd, lasciandosi scappare un eloquente aggettivo – “Inevitabile” – quando gli stato chiesto un parere in merito all’“arrivo di Super Mario”. D’altronde anche Nicola Zingaretti s’è sentito in dovere di fare, pubblicamente, i complimenti a Draghi. Ed è insomma col rimbombo angosciante di quelle due sillabe nelle orecchie, che alla fine Conte – dopo essersi trincerato dietro la contrarietà grillina alle larghe intese – s’è infine deciso, incaricando Federico D’Incà di preparare un incontro condiviso con le opposizioni. Impegno a cui il ministro grillino s’è subito acconciato, sentendosi però opporre lo scetticismo di Lega e Forza Italia: “Stavolta vogliamo che si faccia sul serio”. E allora a Conte è toccato far sapere che il vertice di stamane, cui parteciperà anche il ministro Gualtieri, non sarà solo una formalità per guadagnare tempo. Il segnale, però, dovrà essere chiaro: l’offerta minima che il centrodestra si attende è la nomina di due relatori per il “Cura Italia”, uno di maggioranza e uno d’opposizione, e la possibilità d’intervenire con emendamenti già su questo decreto. Soluzione gradita anche dal Colle, che auspica una concordia che sia “visibile”, e a cui forse anche Conte si rassegnerà, come ci si rassegna a una cura amara, da mandar giù pur di restare in piedi.
E nel frattempo, dovrà confrontarsi – con eguale fatica – con un virus che non accenna a diminuire la sua letalità e con l’ostilità di Germania e Olanda a qualsiasi forma di condivisione del debito. Ma più di tutto, gli toccherà confrontarsi con l’ombra di Draghi, un po’ come un Macbeth tormentato dal fantasma del suo successore. Perché sarà proprio l’autorevolezza di Draghi, il suo prestigio, la sua carriera, il metro con cui d’ora in poi verrà inevitabilmente misurata la statura di aspirante statista dell’attuale premier. E non è un caso che Salvini abbia subito iniziato a proporlo, quell’improponibile paragone: “Se ci fosse Draghi, a rappresentare l’Italia, in Europa ci rispetterebbero di più”.