Luca Zaia e Attilio Fontana (foto LaPresse)

Contro il virus Zaia ha successo, ma il suo modello non trova padrini

Salvatore Merlo

Attilio Fontana e il governatore del Veneto sono diventati per l’Italia l’articolazione di un unico personaggio: l’amministratore locale alle prese col virus. Ma mentre uno soccombe, l'altro sembra farcela

Roma. L’uno è vittimista e rivendicativo, quindi si lamenta: “Ho ricevuto solo briciole da Roma”, dice. E aggiunge che “è una vergogna, non c’è arrivata se non una piccola parte di ciò che avevamo chiesto”. Dunque critica il governo che non ha imposto la zona rossa a Bergamo. E quando gli chiedono perché non l’ha fatto lui, risponde che mica poteva. Poi però in un impeto decisionista – a riprova del fatto che i presidenti di regione possono decidere misure eccezionali laddove la situazione è eccezionale – introduce lui d’improvviso e in solitaria l’obbligo di indossare le mascherine, le sciarpe o i foulard per tutti i lombardi.

 

L’altro è invece silenzioso e attivo, ha speso 92 milioni di euro del Veneto senza recriminare con Roma. “Bisogna identificare i nuovi contaggiati che non sanno di esserlo e magari metterli in isolamento”, ripete spesso. Non parla molto in televisione, ma segue uno schema scientifico che gli viene suggerito da un grande virologo che si chiama Andrea Crisenti, direttore dell’Unità complessa diagnostica di microbiologia di Padova e docente di Biologia all’Imperial College di Londra. “Bisogna fare terra bruciata attorno al virus”, dice, seguendo i consigli del professore. “Questa è una guerra non convenzionale, siamo in una giungla e dobbiamo aprirci la strada con il machete”, aggiunge. Così, fino a qualche giorno fa, il Veneto rilevava 9.155 casi di contagio da Covid-19, mentre la Lombardia superava i 43.000. In Lombardia erano morte più di 7.000 persone, in Veneto poco meno di 500.

 

Insomma, Attilio Fontana e Luca Zaia, il presidente della Lombardia e quello del Veneto, entrambi leghisti, loro malgrado sono diventati per l’Italia l’articolazione di un unico personaggio: l’amministratore locale, il governatore autonomista del nord impegnato nella guerra contro il virus. Solo che uno sembra soccombere, l’altro dà invece l’impressione di farcela, mentre la politica e la propaganda li avvolgono entrambi, ne alterano i lineamenti e la percezione pubblica. Al punto che su Fontana si scatena la rissa, ci si si divide tra accusatori e difensori – persino Salvini si sbilancia e si spende a difesa dell’efficienza lombarda e del governatore “gran signore e persona perbene che lanciò l’allarme prima di tutti” – mentre su Zaia cala un silenzio pubblico e politico che è pari soltanto agli straordinari risultati che la Sanità del Veneto ha ottenuto nel contenimento del virus. Quei numeri che hanno a tal punto incuriosito gli scienziati, all’estero, da aver spinto l’Università di Harvard a studiare il caso del Veneto, a paragonarlo in positivo con la Lombardia, per concludere dicendo, in un articolo della rivista scientifica Harvard business rewiew, che i risultati emersi dal Veneto, ottenuti “grazie a un maggior numero di test”, a “operatori sanitari più protetti” e a un “più rapido ed efficace tracciamento” dei contagi, “dovrebbero essere utilizzati per rivedere velocemente le politiche regionali e centrali”.

 

Tanto che oggi, la Germania, paese colpito dal virus, ma con un tasso di mortalità molto più basso di quello italiano, sta facendo qualcosa di non dissimile da quanto fatto in Veneto: ricerca e individuazione precoce dei positivi, controlli a tutte le persone che fanno parte dello stesso nucleo familiare, individuazione per tempo dei focolai e loro conseguente spegnimento, attenzione alle case di riposo e alla trasmissione in comunità chiuse. Ma Zaia non può diventare l’eroe eponimo della lotta antivirale italiana, né per la destra né per la sinistra. Salvini non può certo permettersi d’investire di un tale successo un suo potenziale avversario interno, uno che già oggi non gli ubbidisce, uno che ha un consenso personale straordinario, uno che agisce senza dover chiedere il permesso, e che già dovrebbe essere il leader della Lega se solo la Lega fosse un partito normale e non fosse diventato il proscenio girevole degli spettacoli in felpa e rutto libero di un ex speaker di Radio Padania. Dunque silenzio, shhh. Il Veneto non esiste. Mentre anche la sinistra si gira dall’altro lato, ovviamente. Non può mica riconoscere che ci sono autonomie regionali che funzionano e creano efficienza, specie adesso che la narrazione vincente, univoca, ha stabilito senza alcun dubbio che il disastro del Covid è colpa delle regioni e che dunque in Italia bisogna ricentralizzare ogni cosa, a partire dalla Sanità. Se ne accorgono solo all’estero, di Zaia e del Veneto. Per adesso.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.