“Pensano che governare significhi comunicare”. Colloquio sulla crisi da virus
Due chiacchiere sugli eterni guasti italiani con un grand commis dell’état (e vecchio amico di Mattarella), Alessandro Pajno
Poiché è il prodotto degli studi classici e giuridici, delle scuole dove la parola è il vestito della cosa, del liceo come sartoria della vita, allora risponde evocando il pensiero di Max Weber: “Qualunque sistema economico richiede una amministrazione efficiente e una giustizia funzionante. E’ da qui che bisogna partire per la ricostruzione dopo il virus, perché la partita è aperta, ma l’esito non è scontato”. E poiché infine è probabilmente anche cattolico, nonché palermitano, da trent’anni amico di Sergio Mattarella, ecco che in questi giorni di solitaria e drammatica Pasqua gli viene da dire che “dobbiamo risorgere in modo diverso da come siamo stati fin qui. Se risorgiamo senza cambiare i nostri guasti, le nostre tare, allora non sarà una vera resurrezione. La chiesa cattolica ha dato un segnale importante. Il Papa, almeno. Francesco ha parlato di ‘diritto alla speranza’. Ma la speranza si deve nutrire di alcune certezze. Non assolute, ma relative: competenza, capacità, l’idea che il risultato di quanto fatto non si misuri con il consenso dei social network”. A settantun’anni, Alessandro Pajno, docente di Diritto amministrativo, ex presidente del Consiglio di stato, capo di gabinetto di Mattarella e di Ciampi, all’Istruzione, al Bilancio e al Tesoro, segretario generale della presidenza del Consiglio con Romano Prodi e poi sottosegretario al ministero dell’Interno, è uno di quegli uomini di cui il grande pubblico non conosce il volto e stenterebbe a indovinarne le funzioni, malgrado abbia servito lo stato, e nei suoi gangli vitali, per tutta la vita.
Pajno è infatti la grande intendenza d’Italia. E ancora oggi, che è in pensione, esprime la dottrina dell’esangue potere delle istituzioni contrapposta, come in uno specchio, al potere sanguigno della politica. Così, quando parla, si capisce che le forme spettacolari e marketizzanti lo infastidiscono. “Non si vive di sola comunicazione”, dice. “Occorre la gestione”, aggiunge. E spiega: “C’è una battuta che a me piace ripetere: ‘Il populismo spesso intercetta problemi seri ma dà sempre le risposte sbagliate’. Ecco, sembra che nessuno voglia fare la fatica del lavoro necessario a cambiare le cose”. E secondo Pajno uno dei guasti che affliggono l’Italia, che ne frenano la capacità di sviluppo anche economico, è l’eccesso di leggi, “contraddittorie, sedimentate l’una sull’altra, di difficile interpretazione. L’effetto di una miopia, e di una malattia propagandistica, cioè dell’idea che le leggi siano palingenetiche, che basti una norma a risolvere un problema. Al punto da aver trasformato le leggi in bandiere, in strumenti retorici, fin dai nomi con le quali vengono battezzate. Pensateci un attimo. ‘La buona scuola’. Oppure: ‘Legge Spazzacorrotti’. Spazzacorrotti dà l’idea di un colpo di maglio che cancella ogni cosa. Ma sono figure retoriche che servono soltanto a saltare i problemi a pie’ pari. E infatti i problemi sono venuti al pettine con le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo, della Corte costituzionale… Di leggi ce ne sono anche troppe. Se il sistema non funziona in modo adeguato, se ci si perde in una serie di regole astruse, la causa non è soltanto in un certo tipo di cultura e di mentalità della burocrazia o nella sua mancanza di qualità ma, innanzitutto, è proprio in quel reticolo di leggi, regolamenti, disposizioni primarie e secondarie che circondano lo svolgimento dell’azione amministrativa”. E si ritorna dunque a Weber, qualunque sistema economico richiede una amministrazione efficiente e una giustizia funzionante. Dice infatti il professor Pajno: “Per fornire un contributo alla ricostruzione, sarebbe quanto mai opportuno un autentico cambiamento culturale, che riscopra il valore autentico della discrezionalità dell’amministrazione. Le leggi devono essere poche e chiare. Le decisioni, in base a quelle leggi, le prende l’amministrazione. Solo così rilanciamo l’Italia”.
E la discrezionalità, “non è arbìtrio”, dice questo grand commis de l’état. “Perché discrezionalità significa realizzare l’interesse pubblico in base alla legge nella situazione concreta. Significa scegliere. E’ il modo più efficiente e rapido di risolvere i problemi ed evitare i contenziosi”. Un esempio? “Se faccio una gara di appalto, io burocrate scelgo la proposta che è più favorevole all’amministrazione. Però, poiché nel nostro paese la scelta viene spesso considerata come una sorta di rischio di arbitrio, forse per ragioni storiche, ecco che abbiamo una amministrazione debole la cui capacità di scegliere e decidere viene surrogata con leggi sempre più precise e rigide. Così, ogni volta, di fronte all’emergere di un problema nuovo, scriviamo una nuova legge invece di incaricare gli uomini di risolvere quel problema in base alle leggi che esistono. A questo punto sa che succede? Succede che la stessa amministrazione comincia ad avere paura di decidere per l’enorme quantità di responsabilità civili, penali e contabili che il legislatore gli ha caricato sulle spalle. Insomma tende a sfuggire dalla responsabilità. Quindi magari non firma nulla. Come non firmano i commissari, e persino i sindaci. Questo provoca lo stallo. E poi ci si chiede perché non partono le opere pubbliche e perché non vengono dati i permessi… Lei ricorda il disastro del Bisagno? Quel tragico smottamento del torrente a Genova? Si disse che i lavori che avrebbero potuto mettere in sicurezza il torrente non si erano fatti perché il Tar li aveva bloccati. Ma il realtà il Tar aveva rigettato una richiesta di sospensione. Si sarebbero potuti fare. Fu il commissario speciale che si occupava di quei lavori che fermò tutto. E fermò tutto proprio perché, temendo possibili responsabilità amministrative e contabili, voleva aspettare che si risolvesse il contenzioso. Altre volte c’è il timore della responsabilità penale. Il controllo penale è importante. Ma dovrebbe riguardare i comportamenti, mentre certe volte – favorita dalle leggi – si assiste invece alla tendenza da parte di alcuni pm di sindacare i provvedimenti stessi.Così non funziona. La competitività di un paese dipende dalla qualità del suo sistema amministrativo, che risponde alle esigenze dei cittadini e delle imprese. L’amministrazione deve essere sottoposta ai controlli, ovviamente, ma deve essere messa nelle condizioni di decidere. Perché le norme sono astratte mentre i problemi sono concreti. E solo gli uomini possono adattare le regole ai fatti concreti”.
Poche regole, dunque, non contraddittorie, non invalidanti. “Le leggi devono essere come gli ‘enti’ di Occam”, non vanno moltiplicate, “mentre il nostro bipolarismo è stato però interpretato come signoria delle regole. Ogni volta chi governa ha teso a cambiare tutto quello che era stato fatto dagli altri. Il codice degli appalti entrato in vigore nel 2006, quello precedente all’attuale, per esempio, è stato modificato circa cinquanta volte. Perché ogni governo metteva qualcosa in più. Spesso di contraddittorio. E infatti ogni volta che in Italia, in ogni campo, si è posta una questione, la risposta è stata facciamo una legge o istituiamo un ministero. Un guasto culturale. Una deriva che ha piegato l’attività di governo, che dovrebbe essere capacità di scegliere ragionevolmente, alla ricerca del consenso più immediato. La nostra politica è più brava a preparare le elezioni che a impegnarsi nella fatica di governare”. Ma la crisi drammatica del Covid-19 può essere anche un’occasione di riscatto, di ammodernamento, l’opportunità di modificare i guasti storici di un paese che già prima della depressione virale non riusciva a crescere e funzionare. “La semplificazione legislativa è un obiettivo alto. Non semplice. Solo Dio è semplice. Ma si può fare”, dice questo professore palermitano che la macchina dello stato la conosce bene come pochi altri, ma che pure deve credere nella Provvidenza, quella forza che trasforma la storia umana e fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male.