Roma. I morti, gli errori, i litigi, la mancanza di quel sentimento nazionale che nella storia è stato sempre il prerequisito d’ogni ricostruzione, dopo ogni catastrofe, guerra, crisi, epidemia. Quasi tutti i partiti, o almeno le persone che ancora nei partiti un po’ ragionano, sono attraversati da un’inquietudine che prende forme diverse, a seconda del contesto, degli interpreti. Ma che pure precipita su ragionamenti che alla fine si assomigliano tutti, e riguardano la sopravvivenza dell’intero sistema e nemmeno più tanto del solo governo di Giuseppe Conte. Nella Lega, per esempio, vecchio partito leninista, malgrado il segretario sgarzolino e twittante, si avverte l’allarme sommesso di Luca Zaia e di Giancarlo Giorgetti, uno strisciante fastidio nordista per il sovranismo, per le sparate senza costrutto dei Borghi e dei Bagnai, per lo sfascio coltivato come unica risorsa comunicativa. E anche nel Pd, dove ci si comincia a lamentare del Parlamento silenziato e trasformato in un bollinatore di Dpcm, la paura del futuro incognito non è sempre compensata dalla pienezza soddisfatta di gestire il potere e il governo.Non per tutti, almeno. “L’angoscia del paese, che porta a stringersi intorno alle istituzioni, può facilmente trasformarsi in rabbia” , dice per esempio, da giorni, Graziano Delrio, il capogruppo del Pd. Cosa potrebbe provocare l’incrocio tra l’epidemia di Covid e la crisi economica? E quali risposte è in grado di dare una classe dirigente politica che nel suo complesso, da destra a sinistra, appare rissosa, a tratti inadeguata, incapace di compromessi, spesso sovraeccitata dall’orgasmo della rappresentazione più che impegnata nella fatica di esercitare la rappresentanza?
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