Roma. Ai parlamentari che ha contattato per convincerli a firmare il suo scombiccherato appello fuori tempo massimo contro la conferma di Descalzi alla guida dell’Eni, Alessandro Di Battista ha garantito che no, nelle sue intenzioni non c’è affatto quello di far cadere il governo Conte. “Ma costringerlo a tenere in considerazione le posizioni del M5s, questo sì”. E però, se alla fine parecchi simpatizzanti del guerrigliero di Vigna Clara hanno rifiutato di sottoscrivere il post, è stato perché è parso evidente a tanti che le due cose potrebbero non conciliarsi. “Siamo senza guida da mesi, ed è giusto che il Movimento torni ad avere una direzione”, tuona non a caso Ignazio Corrao, sodale del Dibba e animatore della fronda anti Ursula a Bruxelles. Insomma, “Alessandro si candiderà – ci dice – a capo politico. Per noi è l’unica possibilità di rilancio”. Per il M5s chissà. Per il governo sicuramente no. E infatti Luigi Di Maio, nel suo intento di logorare Conte senza però contestualmente perdere l’unica poltrona che gli è rimasta, per ora tentenna. Ha lasciato che a stroncare l’iniziativa di Dibba fosse il reggente per caso Vito Crimi, che credendo davvero nell’incarico che ricopre domenica sera ha criticato “nel metodo e nel merito” la sedizione interna, mettendo la faccia sulle nomine concordate col Pd e il Quirinale. “Una decisione sofferta che ho preso con consapevolezza”, ha detto. E tuttavia, agli occhi di Federico D’Incà, che da ministro dei Rapporti col Parlamento tiene la contabilità alle Camere, non è sfuggito che tra i sostenitori del papello dibbattistiano ci sono ben dodici senatori. Che, per una maggioranza già in bilico, rischiano di essere, seppure non decisivi a livello di aritmetica, comunque un impaccio in più su una strada già dissestata.
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