Roma. La festa della liberazione cade quest’anno nel mezzo della Grande Metafora Bellica, quella che ci sprona a combattere un nemico invisibile, ad applaudire i medici in prima linea, o in trincea, a lottare per sconfiggere il coronavirus, a esaltare le armi potenti della quarantena e del distanziamento sociale, che però funzionano solo se le usiamo in modo coordinato, come un esercito votato a una causa comune. Gli americani, avvezzi a dichiarare guerra al cancro, alla droga, alla povertà, sono passati già da tempo ai riferimenti espliciti alle truppe, all’artiglieria, all’avanguardia e alla retroguardia, e adesso che ci si affaccia timidamente alla fase di riapertura si invoca l’armistizio, la ricostruzione, il piano Marshall. L’armamentario retorico della guerra (metafora nella metafora) è un classico nel racconto delle epidemie e delle minacce in genere, se ne trova traccia più o meno in qualunque cultura ed epoca, perché farsi la guerra è un’attività che gli esseri umani conoscono molto bene da sempre. Il riferimento arriva a tutti. E’ poi particolarmente efficace perché “le guerre sono concepite come ‘vincibili’: ci sono cioè vincitori e vinti”, ha detto uno studioso di nome J. Blake Scott, della University of Central Florida, intervistato da Vox.
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