Bettino Craxi (foto LaPresse)

Bettino Craxi, una ferita aperta

Alessandro Barbano

Le vicissitudini del leader politico. La gogna da imputato di Tangentopoli. Così sull'ex premier socialista si è abbattuta la più grande ipocrisia della storia repubblicana

Perché la storia non si fa con i “se…”? Perché con i “se…” la storia si disfa e diventa, per dirla con una metafora di Jean Baudrillard, un simulacro posticcio che non ha alcuna verità. Nella storia di Bettino Craxi ci sono due “se…” che operano questa contraffazione del reale. Uno riguarda il leader politico: “Se avesse accolto l’appello di Bobbio per un fecondo dialogo con il Partito comunista…”. L’altro riguarda l’imputato di Tangentopoli: “Se si fosse consegnato alla giustizia italiana…”.

  

La persistenza di queste ipotetiche dell’irrealtà è riecheggiata nelle commemorazioni mediatiche del ventennale della sua morte. La prima l’ha formulata Umberto Ranieri in un articolo sul Foglio. La sua tesi è che l’errore di Craxi fu quello di restare agganciato a un’alleanza opportunistica e priva di avvenire con la Dc, rinunciando a perseguire con la sinistra unita quell’alternativa di governo che, dopo la caduta del muro di Berlino, non giustificava più alcuna conventio ad excludendum.

 

 

Ranieri è stato nel Pci parte di quella minoranza cosiddetta migliorista che vedeva nel dialogo con i socialisti, in condizioni di pari dignità, una exit strategy al fallimento del comunismo. In un coraggioso libro del 2015, intitolato “Napolitano, Berlinguer e la luna. La sinistra riformista tra il comunismo e Renzi”, l’intellettuale e politico napoletano ricorda quanto fosse difficile far prevalere posizioni non massimaliste all’interno della direzione comunista e velatamente rimprovera al leader della sua corrente, Giorgio Napolitano, la rinuncia fino all’ultimo a uno strappo pure necessario.

 

Senonché il punto di vista della classe dirigente del Pci, da Occhetto a D’Alema, da Violante a Veltroni, era di segno nettamente opposto al suo: di fronte a un ormai insostenibile ancoraggio al campo comunista in disfacimento, questi ritenevano che fosse giunto il momento di trasmigrare nello spazio socialista, occupandolo e sfrattando il Psi. Il motivo è comprensibile: nelle democrazie europee il Pci era ancora l’unico partito massimalista a vantare un significativo vantaggio nelle urne rispetto ai cugini riformisti. Se pure già in calo nelle elezioni del 1987, la sua percentuale di voti alla Camera era ancora del 26,57, quasi il doppio del 14,27 fatto registrare dal Psi. Tanto più la sconfitta del comunismo metteva in discussione questo primato, tanto più i suoi temporanei detentori erano intenzionati a difendere il loro fortino assediato dalla storia.

 

Si aggiungano i conflitti tra i due partiti legati alla specificità delle leadership: nell’ottica dei comunisti era inaccettabile il rifiuto di Craxi a qualunque subalternità. Non a caso la sua autonomia culturale forgiata sulle idealità del socialismo liberale gli valse l’accusa di aver compromesso e snaturato i caratteri di una forza di sinistra. Questo per dire che l’arroccamento di Craxi nell’alleanza con la Dc e la rinuncia a una prospettiva riformatrice, che pure per primo il Psi aveva posto come prioritaria, furono tutt’uno con una presa d’atto del ritardo culturale con cui i comunisti si liberavano della loro asfissiante matrice ideologica. Si può rimproverare a Craxi di aver rinunciato al dialogo con quella stessa classe dirigente comunista dalla quale si sollecitava uno strappo salutare?

 

E tuttavia questa rinuncia è solo parzialmente vera, perché furono molte le circostanze, tra il 1990 e il 1992, in cui il tema dell’unità socialista fu oggetto di articoli sull’Avanti!, discorsi pubblici e suoi colloqui informali, come testimonino alcune lettere inviate dal soggiorno tunisino ai giornali, mai pubblicate ancorché conservate nell’archivio della Fondazione Craxi. Si aggiunga che per il leader del Psi l’evoluzione politica della democrazia italiana non poteva prescindere da una trasformazione dell’assetto costituzionale. Si trattava di superare quel sistema assembleare scelto dai costituenti dopo la Liberazione, variante tutta italiana del parlamentarismo, che aveva regalato per quarant’anni al paese una democrazia acefala, fatta di governi deboli e di breve durata, in quanto ricattabili da minoranze portatrici di interessi particolari. L’approdo verso forme di democrazia decidente, che in Francia erano state il presupposto della stagione di Mitterrand e del suo protagonismo riformista, risultava non condiviso dai figliocci di Berlinguer, alle prese con i tormenti della Bolognina. Quanto il realismo di Craxi non fosse campato in aria lo prova il travaglio e poi il fallimento del bipolarismo durante i venticinque anni della Seconda Repubblica e la difficoltà di trasferire il maggioritario dalla legge elettorale a un assetto costituzionale coerente. Questo non vuol dire che le scelte nell’ultima stagione della sua leadership furono giuste, ma solo che la praticabilità del dialogo a sinistra va valutata dentro la storia e non decontestualizzata in un presente fatto di “se…”.

 

Allo stesso modo va riconsegnata alla storia la seconda condizione ipotetica, formulata da Massimo Franco durante una recente intervista televisiva: la scelta di Craxi di sottrarsi alla giustizia italiana va collocata nel contesto in cui fu presa. Non per giustificarla sul piano morale, ma per cogliere a pieno l’eccezionalità di una stagione della democrazia italiana ancora acriticamente celebrata o piuttosto rimossa. C’è un dato, ignorato e sottovalutato, che racconta la dimensione totalitaria che assunse Mani Pulite nella storia del paese: tra il 1992 e il 1994 trentadue persone attinte a target dell’indagine si tolsero la vita. Un’eminenza grigia della magistratura, il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, disse con malcelata soddisfazione: “Si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide”. Ma la vergogna non spiega l’enormità del fenomeno, del tutto inedito nella casistica delle inchieste giudiziarie. Quelle morti dicono invece tutta la percezione di accerchiamento che l’azione dei magistrati milanesi produceva nel suo roboante incedere. L’escalation di arresti, gogne mediatiche e gesti estremi aveva i segni di uno tsunami rivoluzionario destinato ad abbattere, insieme con ogni violata privatezza, le fondamenta dello stato di diritto. Non solo per l’uso abnorme della custodia cautelare piegata all’obiettivo della confessione o della delazione, per la progressione a strascico dell’inchiesta, per la dilatazione in via interpretativa delle fattispecie penali, per la selettività chirurgica degli obiettivi politici, che s’incentrò sui socialisti e sui democristiani ma risparmiò i comunisti. Ma soprattutto per il collateralismo della stampa, che svolse una straordinaria funzione di collegamento tra i magistrati e l’opinione pubblica, consolidando un consenso bulgaro attorno all’azione del pool di Borrelli e Di Pietro. Il ruolo dell’informazione fu decisivo per il salto di qualità compiuto dalla magistratura nella costituzione materiale del Paese: nei due decenni precedenti questa aveva conquistato inediti spazi di autonomia sfruttando la delega indiretta di poteri ricevuta dalla politica, in nome della lotta prima al terrorismo e poi alla mafia; da quel momento in poi si configurò prevalentemente come un soggetto politico che riceveva direttamente una delega dal consenso popolare costruitole attorno dai media, in nome di una bonifica morale del sistema rappresentativo nei confronti del quale si poneva per la prima volta come contropotere.

 

La percezione di accerchiamento che ebbe Craxi fu assoluta e non infondata. Perché nel frattempo la sfida per l’occupazione del campo socialista si era fatta più incerta. Alle elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992 la distanza tra comunisti e socialisti si era accorciata – 16,11 per cento contro 13,62 per cento alla Camera - tanto da delegittimare ancora di più le pretese egemoniche dei primi. Craxi divenne l’ostacolo al riciclaggio storico che gli eredi di Berlinguer tentavano a tempo scaduto. E divenne contemporaneamente il bersaglio di una parte del sistema mediale e dell’establishment finanziario ad esso collegato, che non gli perdoneranno mai di essere stato il mallevadore civile di Berlusconi.

 

Che tra gli spregiudicati inquirenti e i nemici politici ed editoriali del leader socialista ci fosse un accordo strategico è un’illazione non confermabile e neanche smentibile. Ma che il corso della storia fece convergere i loro interessi in un unico scarico è inconfutabile: quando, il 29 aprile del 1993, la Camera negò per la prima volta l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, scatenando le dimissioni dei ministri comunisti dal governo Ciampi, la prima pagina de la Repubblica raccontò la vicenda con un titolo a caratteri cubitali in prima Pagina: “Vergogna / Craxi assolto”. Il resto è un susseguirsi di eventi in concatenazione causale gli uni con gli altri: dal comizio di Occhetto a piazza Navona all’assalto della folla all’hotel Raphaël e, nei mesi a seguire, alla sua partenza per Hammamet, un anno prima che la procura milanese ottenesse l’ordine di cattura che lo riguardava.

  

Craxi era un figlio del Secolo Breve, ancorché più di tutti avesse rinnegato le sue tossine ideologiche. Il conflitto era la cornice geopolitica in cui contestualizzare le sue scelte, anche quelle del pacifismo. Non a caso riconobbe indirettamente legittimità alla lotta armata dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, spiegando in Parlamento la sua fermezza a Sigonella, nella notte in cui il conflitto con gli americani divenne un’ipotesi concreta. La sua scelta di sottrarsi alla giustizia fu perciò una forma di lotta politica di testimonianza, di fronte alla percezione di un’emergenza eccezionale e insormontabile per la democrazia italiana.

 

Allo stesso modo le monetine dei militanti comunisti sono uno spartiacque simbolico nella storia della sinistra italiana. Perché se è vero che il giustizialismo era un vento che spirava ormai dalla piazza al Palazzo e tra tutti i punti cardinali del sistema politico – tanto la Lega quanto il Movimento sociale italiano di Fini ne furono influenzati – tuttavia da quel momento divenne la postura ideologica della nascente sinistra postcomunista. Ma il prezzo pagato alla convenienza tattica di sbarazzarsi di un nemico peserà sul destino della democrazia: perché Mani Pulite fu l’attacco più consistente mai sferrato all’autonomia della politica e al destino della delega, che da quel momento andrà progressivamente indebolendosi. Il populismo che ne teorizza ai giorni nostri il superamento è in linea di continuità con il raid politico, giudiziario e mediatico che si abbatté sull’Italia in quegli anni. 

 

Per questo non si può dimostrare l’inconsistenza civile, prima ancora che politica, del populismo, rinunciando a riscrivere un pezzo della storia che ha visto un capo di governo e leader di partito morire all’estero, dopo essere stato selettivamente assunto a target di un’inchiesta giudiziaria che diresse mezzi di inaudita spregiudicatezza al fine di una rivoluzione politica e civile. 

 

La vicenda politica e personale di Bettino Craxi è una ferita rimasta aperta, perché svela la più grande ipocrisia della storia repubblicana. Un’ipocrisia da lui dismessa e smascherata in alcune frasi indimenticabili: “Ciò che bisogna dire e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”. Sono le parole pronunciate da Craxi alla Camera dei deputati il 3 luglio 1992, durante il discorso di fiducia al nascente governo Amato, concluso con una sfida al sistema dei partiti che per più di un quarto di secolo nessuno ha raccolto: “Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

 

Per i non pochi che giurarono in senso contrario, troppi tacquero e si girarono da un’altra parte. Non a caso, a distanza di tanti anni, il finanziamento occulto resta la fonte di finanziamento della politica e la morale giustizialista il suo velo ipocrita.

  

Si sottovaluta il peso di quella mancata assunzione di responsabilità sulla sorte del Paese. In realtà la coraggiosa, ancorché tardiva, denuncia di Craxi fu l’ultimo tentativo di riagganciare la verità politica alla verità effettuale, dopo una separazione che aveva avuto quattordici anni prima il suo traumatico strappo con il sequestro e la morte di Aldo Moro. La strategia della fermezza, cioè l’idea che lo Stato non debba mai trattare con il nemico e che il sacrificio dello statista democristiano fosse la condizione necessaria per isolare e sconfiggere le Brigate rosse, era stata una grande menzogna confezionata dai partiti per difendersi senza cambiare, un tentativo maldestro di fronteggiare la prima crisi di rappresentatività del sistema mettendo la testa sotto la sabbia. Il voltarsi dall’altra parte degli stessi partiti di fronte alla denuncia del leader socialista in Parlamento segnò il divorzio definitivo della verità politica dalla verità effettuale. Il tragico epilogo della vicenda personale di Bettino Craxi, il suo esilio volontario e poi la sua morte, hanno scavato un fossato tra il discorso pubblico e la coscienza rimossa del Paese.

 

Da quel momento l’ipocrisia smette di essere una possibilità della politica per diventare la grammatica della politica in Italia. L’intero corso della cosiddetta Seconda Repubblica maschera nel rumore di fondo di una contrapposizione permanente, nei conflitti di interesse palesi e occulti, e nelle accuse reciproche che mostrano una complice rinuncia ad affrontarli, la mancata risposta alla domanda che Craxi pose in Parlamento: come si riporta nella legalità il finanziamento della politica? E cioè, come si regola il rapporto tra poteri pubblici e interessi privati o, piuttosto, come si giustifica un finanziamento pubblico esaustivo dei costi del sistema, di fronte alla crescente crisi di legittimazione dei partiti? Le riforme istituzionali, nell’ultimo ventennio abbozzate, coltivate e poi tutte fallite a un passo dal traguardo, segnano un tentativo di rilegittimare la rappresentatività con uno scatto di ingegneria costituzionale.  Ma forse falliscono tutte proprio perché cercano una scorciatoia per evitare di riannodare la verità politica alla verità effettuale, e finiscono per perdere la strada maestra. Nel frattempo, nel solco che la Seconda Repubblica ha aperto tra propaganda e responsabilità, germoglia la verità surrogata del populismo. Ignorare questa linea di continuità significa rinunciare a sfidarlo. Riconoscerla significa anzitutto fare i conti con il proprio passato.

 

La sinistra dovrebbe essere la prima forza interessata a promuovere una revisione di questo drammatico passaggio della storia nazionale, avendo grandemente concorso a produrlo. Dovrebbe avere il coraggio di alzare il velo della retorica populista sulla menzogna di Stato che avvolge la fine di Bettino Craxi, riabilitando in maniera sostanziale la sua figura di statista, non solo per il contributo riformatore da lui fornito alla democrazia italiana, o per il prestigio internazionale della sua politica estera, ma proprio per quella coraggiosa ancorché inimitata assunzione di responsabilità sulla questione morale che stringeva d’assedio tutti, nessuno escluso, i partiti e i leader della prima Repubblica. Dovrebbe ancora, una sinistra riformista, riconoscere di aver flirtato per decenni con una parte della magistratura per contrastare l’egemonia di un rivale scomodo, come Silvio Berlusconi. Significherebbe liberare la sua figura di politico e di statista da quell'ombra che, ingiustamente, viene fatta pesare soltanto su di lui, senza intaccare invece la figura anche di altri.

 

Ne avrebbe in questo momento un motivo di chiaro vantaggio politico. Perché segnerebbe una discontinuità politicamente netta con un racconto giustizialista del Paese che per anni ha adoperato, credendo di giovarsene, ma che ormai le è stato definitivamente espropriato dal populismo. Riconoscendo, anche se a posteriori, le sue responsabilità e la dignità degli avversari, tornerebbe a rilegittimare la maestà della funzione rappresentativa che il populismo vuole disarticolare. 

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