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La spaccatura sui migranti mostra la fronda anti Conte nel M5s

Valerio Valentini

Trizzino (M5s): “Forse l’obiettivo è costringere Conte a decidere per addossargli la colpa di un accordo che ai gruppi non piace”

Roma. Forse converrebbe davvero dar retta al ministro del Pd che invita a non farla troppo complicata: “La verità è che Crimi, Fraccaro e la Castelli avevano letto e non avevano capito, domenica notte”. Può darsi che convenga davvero chiuderla qui. Ma forse, per spiegare le scomposte capriole del M5s intorno alla regolarizzazione dei migranti chiesta dalla ministra renziana Teresa Bellanova, c’è anche da tenere in considerazione il perverso regolamenti di conti in atto dentro al Movimento. Perché se lunedì mattina il reggente per caso Crimi e la vice ministro dell’Economia Castelli hanno corretto fuori tempo massimo la loro posizione, rimangiandosi a suon di dichiarazioni e post sul Sacro Blog il via libera all’intesa data nel vertice di poche ore prima, è anche perché hanno fiutato l’aria di imboscata. “Glielo spiegate voi ai nostri parlamentari che devono votare questa porcata”, si sono sentiti dire da alcuni dei loro colleghi di governo.

 

Carlo Sibilia è stato il più severo, su questo, e a suo modo il più sincero, dacché il sottosegretario all’Interno incarna quello che il deputato grillino Paolo Lattanzio definisce “approccio tipico del M5s a questi temi, che è un approccio di destra”. Ma anche Stefano Buffagni, legato da vecchia e irrisolta antipatia al gerarca minore Crimi, ha trattenuto a stento la sua contrarietà all’accordo. E Giuseppe L’Abbate, sottosegretario all’Agricoltura, già scalpitava, ché quella della Bellanova era una misura che rischiava di discriminare gli italiani. “Giuseppe ha ragione – dice Luciano Cadeddu, responsabile Agricoltura nel dormiente “Team del futuro” – nel dire che si sta sovrapponendo strumentalmente la questione dei migranti con quella del lavoro nero. E del resto, alla luce della disoccupazione che cresce a causa del covid, ci saranno tanti italiano disposti a lavorare nei campi”.

  

Insomma, il rischio era chiaro, per Crimi e Castelli: finire additati, loro, al pubblico disonore della Rete, essere esposti alla gogna della “base”. E allora indietro tutta: “Noi non ci stiamo, così l’accordo non va bene”. E siccome non è tipo che coltivi il senso del ridicolo, ecco che Crimi s’è preso la briga di giustificare l’apostasia sulla base di presunti arzigogoli legalesi, blaterando di una illogica relazione tra regolarizzazione dei migranti e incentivo al caporalato: che è un po’ come rifiutarsi di denunciare un incendio in atto per evitare che bruci la casa. “La verità è che non si riesce neppure a entrare nel merito delle discussioni – dice Lattanzio – perché i nostri sono terrorizzati dalla competizione a destra con Matteo Salvini. Quando eravamo al governo con lui, ci facevamo dettare la linea, e ora che siamo al governo col Pd ce la facciamo suggerire dalla sua propaganda”.

  

Ma del resto, la pancia grillina ribolle di paranoie, e bisogna pure farle sfogare. C’è chi, nelle chat dei gruppi parlamentari, dice che “non possiamo cedere ai ricatti di Renzi”; c’è chi addirittura se la prende con la Lamorgese, il ministro dell’Interno vista da tempo come colei che vuole “distruggere il nostro consenso”. Già mesi fa, quando il prefetto annunciò l’imminente modifica dei decreti Sicurezza, i deputati veneti Raduzzi e Maniero – alfieri del grillismo sovranista anche nella crociata contro il Mes – la criticarono aspramente, e la sarda Corda sentenziò: “Così arriveremo al 5 per cento”. Un complotto, insomma, ordito per spaccare i cinque stelle. “Io mi rifiuto di credere che si stiano bloccando 55 miliardi per una questione relativa ai migranti, deve esserci per forza dell’altro”, dice Filippo Gallinella, presidente della commissione Agricoltura alla Camera, provando a dare un senso al delirio. “Il senso è che così facendo il M5s finisce col logorare la figura di Conte, la sua capacità di mediazione”, dice Giorgio Trizzino. “A meno che l’obiettivo non sia proprio quello di costringere Conte a decidere, per poi addossargli la colpa di un accordo che ai gruppi non piace”, corregge Lattanzio. E l’ombra di Luigi Di Maio è lì, incombe senza neppure il bisogno di evocarla.