Oltre al M5s, pure Salvini difende Parisi. E allora il Pd?
Nel Partito democratico solo Chiara Gribaudo e Tommaso Nannicini hanno invocato le dimissioni del presidente di Anpal. Perché?
Roma. In fondo, che Matteo Salvini rinunci ad attaccare Mimmo Parisi, è un paradosso solo apparente: a suo modo il presidente dell’Anpal, a cui ieri il leader della Lega ha fatto visita con toni e con modi cordiali e garbati, rappresenta in pieno la filosofia alla base della politica economica gialloverde, quella che insoma il Truce ha condiviso e avallato mentre era al governo: spesa pubblica improduttiva e assistenzialismo. E certo, non può sorprendere neppure che i vertici del M5s difendano il suo profeta “italopugliese”, quel Parisi che Di Maio ha richiamato nientedimeno che dal Mississipi per farne il “papà dei navigator e del reddito di cittadinanza”. Stupisce semmai, e non poco, l’indifferenza di grossa parte del Pd nei confronti del presidente dell’Anpal. Perché se è vero che Chiara Gribaudo e Tommaso Nannicini da settimane ormai invocano le dimissioni di Parisi, è pur vero che quelle della deputata e del senatore dem risultano due voci isolate in un coro di balbettii e mutismi. Ora, se il Pd ritiene che Parisi sia la persona giusta per gestire le politiche attive di questo paese, allora è bene che pretenda subito, bontà sua, che l’Anpal torni pienamente operativa, attuando la inesistente “fase due” del reddito di cittadinanza (quella che avrebbe dovuto incrociare domanda e offerta dilavoro ) o quantomeno approvando quel piano industriale per il 2020-2022 che da mesi ormai viene ripetutamente bocciato. Ma se è così, non si capisce allora come mai anche il rappresentante del Pd all’interno del cda di Anpal, l’assessore al Lavoro della Regione Lazio Claudio Di Berardino, per tre volte di fila abbia contribuito a rinviare il piano evidentemente inadeguato presentato da Parisi. Questo immobilismo, alimentato peraltro da un rapporto sempre più conflittuale tra il presidente dell’Anpal e il ministro (grillino) del Lavoro Nunzia Catalfo, è surreale e ha come inevitabile conseguenza il fallimento delle politiche attive, appena certificato anche dalla Corte dei conti, secondo cui il reddito di cittadinanza non ha prodotto “nessuna maggiore vivicità complessiva dei centri per l’impiego”.