La disfatta dei sovranisti
Da Bolsonaro a BoJo, da Trump a Putin. Di fronte alla pandemia gli arruffapopolo illiberali hanno fallito
Jair Bolsonaro, Donald Trump, Boris Johnson, Vladimir Putin, Xi Jinping, l’uno accanto all’altro come nei vertici internazionali, ci appaiono provati dalla pandemia, incerti, soli, divisi, oscuri. Cominciamo da Bolsonaro e dal suo memento mori: il presidente brasiliano non ha paura di dire quel che pensa, senza ipocrisie, brutale, sincero e gli elettori lo apprezzano nonostante il record di vittime: un 57 per cento sta con lui, il 33 per cento senza alcun dubbio, perinde ac cadaver, “tanto tutti dobbiamo morire”. Trump cerca consensi in vista delle elezioni di novembre; Bibbia e moschetto, fa appello alla maggioranza silenziosa e grida “legge e ordine”, come Richard Nixon nel 1968 con l’America in rivolta, solo che lui allora era lo sfidante.
I leader “illiberali” sono diversi l’uno dall’altro, ma nelle ultime circostanze hanno mostrato modelli di comportamento molto simili
Oggi le violenze nelle città dopo l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto razzista, possono distrarre l’opinione pubblica dalla catastrofica gestione della pandemia, almeno così spera il presidente americano. L’Economist ha pubblicato in copertina la foto di una lunga strada vuota in una landa desolata con una pietra miliare sulla quale è scritta una macabra cifra: 100.000, come le donne e gli uomini uccisi dal coronavirus. Titolo: “The American way”, e way è la via, ma anche il modo d’essere, la maniera di fare. Boris Johnson ha ingaggiato una partita a scacchi con la morte come il cavaliere nel “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman e l’ha scampata per il rotto della cuffia: ha sperimentato sulla propria pelle che il Sars-Cov 2 non è un’influenza e non si può aspettare “l’immunità di gregge”, ma i repentini zig-zag non hanno migliorato la sua arte di governo. Altro che Winston Churchill, BoJo è rimasto vittima di una doppia tagliola: la Brexit e il Covid-19. Aggiungiamo Vladimir Putin, asserragliato nella sua dacia, in preda al terrore, intento a manipolare i dati sulle vittime del virus: la Russia è scomparsa dalla mappa geopolitica in questi mesi. Mentre Xi Jinping getta la maschera da ultimo imperatore e si rivela un debole tiranno. E’ questa la photo opportunity del nuovo disordine sovranista.
Il New York Times ha pubblicato il 2 giugno un bilancio, corredato di grafici e tabelle per mostrare che il virus ha colpito di più i paesi guidati da leader “illiberali”. La classifica prende in esame 28 paesi con oltre 50 milioni di abitanti, calcolando i nuovi casi ogni 100 mila persone; il periodo di tempo è il periodo che va dal 15 al 28 maggio. In testa a quota 9 c’è il Brasile, seguito dagli Stati Uniti, dalla Russia, dal Regno Unito, più distanti Iran, Messico, Sudafrica e Turchia, sotto la media mondiale. La curva brasiliana è ascendente, mentre le altre tendono a scendere o a rimanere piatte, perché la pandemia è arrivata più tardi, ma il governo ha lasciato che la natura matrigna facesse il suo corso. I leader “illiberali” sono diversi l’uno dall’altro, però hanno mostrato modelli di comportamento molto simili, che potremmo definire nell’insieme negazionisti. All’inizio hanno detto che questo coronavirus era poco più di una influenza, poi hanno irriso chi chiedeva severe misure restrittive, hanno contestato gli esperti mettendoli spesso gli uni contro gli altri (in Gran Bretagna Oxford contro l’Imperial College, negli Stati Uniti Donald Trump ha guerreggiato tutto il tempo con Anthony Fauci improvvisandosi esperto guaritore, quanto a Bolsonaro continua a negare), hanno cercato di tirare avanti come se nulla fosse fino a che la crisi sanitaria non è esplosa in modo evidente e gli ospedali non sono arrivati al collasso. La reazione a scoppio ritardato è l’altro tratto comune, sottolinea Thomas Hale della Università di Oxford che ha studiato le risposte di ogni singolo paese. Per spiegarlo si è fatto ricorso alla contraddizione tra primato della salute e primato dell’economia, meglio morire di pandemia che non di carestia. Invece, i paesi che hanno reagito in modo più efficace contro il Covid-19 sono anche i più preparati contro la recessione. Non sono considerazioni conclusive, ma è il bilancio di questi quattro mesi, da quando il virus ha sfoderato la falce.
Per Derrida “il politico non è più legato a uno stato-nazione radicato nel territorio”, e c’è bisogno di una “alleanza tra filosofia e politica”
Costante è la rivendicazione della politica al primo posto, anche contro la scienza o in generale la competenza, quasi a rovesciare l’aspirazione platonica o meglio “la tentazione di Siracusa”, come la definì Jacques Derrida in una prolusione tenuta appunto a Siracusa, la città che nel gennaio 2001 lo aveva insignito della cittadinanza onoraria. Secondo Platone i veri governanti debbono essere i filosofi con le loro idee, i loro consigli, i loro progetti, la loro saggezza, il sapere alla guida del potere. Ci provò con Dionisio, ma quando contestò il tiranno, il pensatore ateniese finì in schiavitù. Atri due tentativi fallirono miseramente. Secondo Derrida nel mondo moderno dove “il politico non è più legato a uno stato-nazione radicato nel territorio”, c’è bisogno di una “alleanza tra la filosofia e la politica” nel senso che abbiamo bisogno non di filosofi politici, ma di politici con “un’esperienza filosofica” perché debbo progettare il futuro ed anche giuridica perché “una nuova era di cittadinanza cosmopolita si annuncia”. Così sperava il pensatore francese agli albori del nuovo millennio. Oggi invece assistiamo a una reazione proprio contro quell’annuncio, così che l’alleanza tra politica e filosofia sfocia in una lotta senza vincitori.
Esagera il New York Times che resta pur sempre la bandiera della stampa liberal? Se prendiamo il tasso di mortalità, gli Stati Uniti sono grosso modo allo stesso livello dell’Unione europea, hanno fatto peggio della Svizzera e un po’ meglio dell’Olanda, New York è stata colpita come la Lombardia, la California si è comportata grosso modo come la Germania, gli stati rurali e meno sviluppati sono stati tutto sommato risparmiati esattamente come è accaduto nel sud d’Italia o nell’Europa centrale. In America il federalismo ha aiutato, è vero che mai come adesso il conflitto tra Washington e i poteri locali (soprattutto quelli a guida democratica) è stato tanto acuto, ma la reazione alla pandemia da parte di molti governatori è stata ben più pragmatica e meno paranoica rispetto a quella quella Amministrazione centrale. La Germania ci ha offerto l’immagine di un federalismo cooperativo, pur con tutte le differenze e la dialettica interna, in Spagna la gestione è stata nelle mani non sempre ferme del governo centrale, ma non si è verificata la temuta diaspora della Catalogna e dei Paesi Baschi. L’Italia, dove la sanità è nelle mani delle regioni, ha confinato la popolazione in tutto il paese, ma non ha spento l’endemica conflittualità.
La pandemia ha scosso gli equilibri politici internazionali rivelando il sostanziale fallimento di quello che l’economista Branko Milanovic chiama “il capitalismo politico”, che non è solo il regime cinese, ma più in generale il primato della politica attraverso un ruolo più ampio dello stato rispetto al mercato. Proprio mentre la recessione mondiale richiede l’intervento dei governi, trasformati in “medici della peste”, emerge la loro impreparazione, la loro debolezza, l’incapacità di gestire processi e fenomeni che sfuggono ai politici: quelli naturali come il virus e quelli sociali, i comportamenti individuali e collettivi, le aspettative, le reazioni influenzate dalle condizioni economiche, ma anche e in modo determinante dalla cultura, dai valori, dalle idee. Lo stato salva-tutto e salva-tutti non ha recuperato né autorevolezza né legittimità, tanto che la sua autorità appare vuota proprio a coloro quali ne invocano l’aiuto. E’ questo il paradosso che, una volta superata l’emergenza, diventa conflitto aperto. Vediamo i casi più eclatanti in una rassegna a volo d’uccello; in realtà ci vorrebbe un’analisi molto più approfondita e forse si potranno trarre delle conclusioni solo quando la crisi sarà superata.
Lo specchio della Casa Bianca ci rimanda le bizzarrie del presidente (dal rifiuto della mascherina all’uso preventivo della idrossiclorochina amata anche da Bolsonaro), le profonde divisioni nell’establishment dopo il no del segretario alla Difesa, Mark Esper, all’uso dell’esercito contro le proteste, ma soprattutto l’affannosa ricerca di un capro espiatorio. All’interno se l’è presa con tutti tranne che con se stesso; all’estero ha messo sotto accusa la Cina e l’Organizzazione mondiale della sanità. Su Pechino e sulla gestione dell’Oms Trump non ha torto. Con il suo comportamento la Cina ha perso una occasione storica. Difficile fidarsi di Xi Jinping a questo punto, tanto meno dopo il giro di vite contro Hong Kong. La Via della seta diventa nell’immaginario collettivo l’autostrada del Covid-19. Altro che vittoria, stiamo assistendo a un arretramento dell’Impero di Mezzo che non sappiamo dove porterà. All’Assemblea del popolo, il primo ministro Li Keqiang ha dovuto ammettere gli errori commessi a Wuhan; non solo, il governo non annuncerà più l’obiettivo annuale di crescita del prodotto lordo che ha rappresentato negli ultimi decenni il pilastro del sistema. Il paese, storicamente tumultuoso, è stabile se si sviluppa; la battuta d’arresto potrebbe essere molto pesante tanto da provocare un terremoto politico.
Quando calò la cortina di ferro la scelta strategica fu il contenimento dell’Urss, non la sua distruzione. Adesso?
Qual è allora l’interesse degli Stati Uniti, dell’Europa e dell’occidente? Colpire la Cina, risponde Trump; ma fino a che punto? Ora il presidente americano annuncia il blocco dei voli aerei, prima ha lanciato una offensiva sui dazi che ha avuto un colpo di coda sulla stessa economia americana, soprattutto nel comparto tecnologico dove la catena produttiva ha proprio in Cina i suoi anelli più sensibili. Ha provocato l’Unione europea, è arrivato sull’orlo di una rottura con la Germania, tanto che Angela Merkel ha rifiutato di partecipare al G7 che nelle intenzioni di Trump dovrebbe diventare G10 o G11, con la Russia e altri paesi allineati in un ipotetico fronte anti-cinese. Gli Stati Uniti vengono trascinati in una nuova Guerra fredda senza indicare l’obiettivo finale né conoscere i mezzi per raggiungerlo. Quando calò la cortina di ferro la scelta strategica fu il contenimento dell’Urss, non la sua distruzione. Adesso? I tumulti interni, i conflitti razziali mai sopiti, i bidoni di benzina gettati sul fuoco dell’odio, possono essere utilizzati in vista della rielezione, anche di fronte a un Joe Biden candidato senza carisma e senza vera strategia, ma non rafforzano la governabilità del paese e l’autorevolezza di un’America senza guida e che non guida.
Il sovranismo all’italiana rimane senza punti di riferimento. Anche Marine Le Pen ha mostrato un aplomb “repubblicano”
Non si può dire che Boris Johnson sia stato fortunato: la pandemia lo ha travolto, anche personalmente, mentre era in pieno braccio di ferro sulla Brexit. E la sua Global Britannia che schifava l’Unione europea illudendosi di ripristinare la centralità del Commonwealth, si ritrova con un pugno di mosche in mano. La Banca d’Inghilterra si prepara a una Brexit nella condizione peggiore, cioè senza accordo con la Ue. Le pose churchilliane hanno svelato i limiti del borioso Boris, brillante giornalista e politico impreparato: ha mostrato una mancata padronanza dei dettagli sollevando il dubbio che non capisca quel che fa il suo stesso governo; per di più si è circondato di collaboratori arroganti come Dominic Cummings, “il signore delle tenebre” che viola il lockdown e si presenta in conferenza stampa come un letto non fatto. Sotto l’ambizione niente? Non esageriamo, Johnson ha il controllo del Partito conservatore e del Parlamento, può contare su un consenso ampio, non è in grado però di indicare la rotta. La questione irlandese è più aperta che mai, la Scozia è una bomba a orologeria: le isole sembrano immerse nelle nebbie di Avalon. La crisi sanitaria ha fatto emergere una frattura etnica che va oltre la stessa distanza tra ricchi e poveri (le proteste per Floyd degenerano anche a Londra). Il governo ha inseguito la caduta della produzione e la crisi delle imprese con continue iniezioni di sterline e di protezioni. Mentre il nuovo leader laburista, il centrista ex procuratore Keir Stammer, è emerso come un abile duellante che a Westminster, con il suo stile pacato, infilza il primo ministro rappresentandolo come un uomo fuori di sé. Prima nel West End londinese si rappresentava la commedia BoJo contro tutti, adesso si recita il dramma tutti contro BoJo.
Il sovranismo all’italiana rimane così senza punti di riferimento. Anche Marine Le Pen ha mostrato un aplomb “repubblicano” come dicono i francesi: autoisolatasi nella sua abitazione a marzo “per motivi precauzionali”, dopo aver flirtato in modo discreto con i complottisti (“è giusto interrogarsi”, ha detto) lavora a “un libro nero sulla crisi”. Niente piazzate, niente flirt con i gilets jaunes per il momento. I gilet, quelli arancioni, è tentato di indossarli Matteo Salvini spiazzando Giorgia Meloni e mettendo in crisi Antonio Tajani, cazziato da Silvio Berlusconi perché la manifestazione romana del 2 giugno ha preso un andazzo che non fa gioco a Forza Italia. I tre partiti della destra sono prigionieri l’uno dell’altro: gli azzurri non hanno il coraggio di liberarsi dei verdi leghisti rimasti nelle mani del Capitano, nonostante i mal di pancia; Salvini è terrorizzato da un sorpasso della Meloni alla quale manca, però, l’affondo decisivo, cioè smarcarsi sulla questione europea e la minaccia di Italexit. Tutti così rischiano di essere succubi dell’ex generale Antonio Pappalardo, tardo piazzista del populismo, emulo del Vaffa grillino. I Cinque stelle, che stanno al governo e all’opposizione, sfogliano la margherita: mi divido non mi divido, Di Maio o Di Battista. Intanto li ha presi in contropiede l’Unione europea che si è mossa in modo coraggioso, al di là delle attese: la Bce è il principale sostegno al debito italiano, il denaro messo a disposizione per la ripresa è ingente e una grossa fetta è destinata all’Italia. Rifiutare il Mes vuol dire spararsi sugli alluci (su questo Forza Italia si divide dal resto della destra), accettarlo per il M5s è ingoiare un rospo avvelenato. La tentazione è la solita: cavalcare il malcontento, aizzare la folla, arringare la piazza. Ma chi paga? Stampare moneta gratis è l’ultima trovata nazional-populista. Eppure, anche la pandemia ci ha drammaticamente ricordato che non esistono pranzi gratis.