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Un ministero per Zingaretti

Valerio Valentini

In tanti, nel Pd e fuori, invocano l’entrata del segretario nel governo. I paletti di un nuovo patto possibile

Roma. Glielo suggerisce, più o meno apertamente, chi nonostante tutto ci crede ancora, nella cooperazione tra Pd e M5s, e però vede i limiti dell’assetto attuale. “Per affrontare le tremende sfide che ci attendono in autunno - dice il deputato dem Enrico Borghi – c’è bisogno di rafforzare il profilo politico e riformista dell’esecutivo, e di costruire una visione forte e condivisa da tradurre in azione concreta”. E in fondo glielo chiede, sia pure implicitamente, anche chi dell’alleanza tra M5s e Pd è contento assai meno. “Se in questo governo noi dobbiamo crederci – s’è sfogata due giorni fa, coi suoi colleghi della commissione Lavoro, Chiara Gribaudo – allora sarebbe il caso che i vertici del partito se ne assumessero fino in fondo la responsabilità”. E insomma è inevitabile che, tra uno spintone e una lusinga, anche il diretto interessato un pensierino ce lo stia facendo davvero. E’ così che nel Pd va maturando la convinzione che sì, un ingresso al governo di Nicola Zingaretti potrebbe segnare una svolta: per il governo, certo, e forse anche per lui.

 

Che la tentazione ci sia, del resto, se ne sono convinti in parecchi di quelli che, in questi giorni, hanno osservato l’improvviso alzarsi dei toni nella voce, di solito sempre pacata, del segretario. Già nella direzione di lunedì scorso, convocata in videoconferenza, il piglio era stato più deciso del solito, sia rispetto ai suoi oppositori interni, sia nei riguardi dell’azione di governo. E la conferma è arrivata nei colloquio dei giorni seguenti, che Zingaretti ha avuto coi ministri e i capigruppo del partito: se prima frenava sempre le intemperanze, annacquava le insofferenze dei suoi di fronte alle ambiguità di Giuseppe Conte e all’irragionevolezza del M5s, stavolta le ha non solo condivise, ma per certi versi stimolate. “Perché la prova che abbiamo davanti – come ha ripetuto Zingaretti – è di quelle che fanno tremare le vene ai polsi, e le mezze misure non servono”. E allora ecco che anche l’ipotesi del rimpasto, finora sempre scacciata via come si fa con una mosca fastidiosa, comincia a prendere consistenza nei ragionamenti che si fanno al Nazareno. (Valentini segue a pagina quattro)
Zingaretti sa che un cambio in corsa lo chiede buona parte di quelli, tra i suoi parlamentari, che al governo ci sono già stati: quel “club degli ex” – come lo chiamano certi dem, chissà se più con scherno o con rispetto –- che è composto da Delrio e dalla Pinotti, e anche da Orlando. Ma soprattutto, il segretario s’è accorto che una svolta la invocano anche i padri nobili del centrosinistra, da Prodi giù fino a Cuperlo (che non a caso ha fatto uno degli interventi più duri, lunedì, in direzione), in un asse dello scetticismo che arriva fin dentro quella gerarchia d’Oltretevere in cui pure tanto s’era scommesso sull’“avvocato del popolo”. E insomma ecco che, passeggiando per i corridoi di Palazzo Madama, Pier Ferdinando Casini dispensa la sua saggezza: “Se Zingaretti volesse un consiglio gli direi di non escludere la possibilità di andare al governo. Si misurerebbe con una platea nazionale in un momento davvero difficile per l’Italia. Un battesimo del fuoco pieno di rischi ma anche di opportunità”. “Un nuovo governo? Io dico solo che, nei momenti più difficili, ci si dovrebbe affidare ai migliori”, va ripetendo Carlo Calenda, quasi a lasciare intendere che magari anche lui, chissà, a quel punto ci starebbe. Che poi, in fondo, è lo stesso pensiero che condivide anche Matteo Renzi.

 

D’altronde, le convenienze per Zingaretti potrebbero essere anche di altro genere. E’ a capo di un partito che di liquidità in cassa ne ha poca; i gruppi parlamentari gli somigliano fino a un certo punto; quanto alle cose di governo, quasi tutto è nelle mani di Dario Franceschini. Il quale, alla fine, se davvero si compisse il disegno che lo vedrebbe ascendere al Quirinale nel 2022, potrebbe essere l’unico a uscire lindo da questa palude rossogialla, lasciando proprio a Zingaretti i cocci in mano: ché a fine legislatura, quel congresso finora sempre rimandato, diventerebbe ineludibile, e Zingaretti potrebbe incontrare qualche rivale vero . E allora ecco l’idea della svolta: ecco anche l’accelerazione sul proporzionale per tornare a brandire, per quanto poco credibilmente, la minaccia del voto, e tramite quella pressare Conte e il M5s, stressare questo precario equilibrio che a settembre, con la deflagrazione della crisi economica e la resa dei conti delle regionali, potrebbe precipitare. Per poi produrre un nuovo governo con la stessa maggioranza, come auspicano certi ministri del M5s, o magari creando sponde con FI, dando un senso a questo intensificarsi di contatti tra Zingaretti e Gianni Letta. Sempre che l’eventuale fallimento degli Stati generali non acceleri tutto. A quel punto, un incidente sul Mes in Parlamento sarebbe una formalità: e ci sarebbe solo da fissare la data di un’altra elezione: quella della regione Lazio. Fantapolitica? Chissà.

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