Dibba o Taverna? Anche il futuro del grillismo si gioca a Roma
Linee divergenti, evoluzioni non simmetriche, distanze opposte da Grillo. Che c'entra la Capitale con la leadership del M5s
Roma. Era l’autunno del 2012 e la nuova strana creatura politica, il M5s che Beppe Grillo aveva metaforicamente battezzato nelle acque dello Stretto di Messina, si esponeva al giudizio dei militanti (e del web) con le prime parlamentarie della sua storia. Tra i tanti volti anche pittoreschi di sconosciuti e neofiti della politica, spiccavano quelli di due attivisti romani: Alessandro Di Battista e Paola Taverna. Lui reduce da viaggi-reportage in America Latina, lei impiegata in un laboratorio analisi, mamma e stornellista per diletto. Una volta eletti, nel febbraio 2013, i due erano stati immediatamente identificati come punti di riferimento delle folle. E se, negli anni precedenti al 2013, entrambi avevano gravitato attorno ai primi meet-up attivi nella capitale, quelli poi polverizzati dalle lotte interne, negli anni successivi la vita politica li aveva fotografati in parallelo, entrambi applauditi dalla cosiddetta pancia del M5s, tribuni nel piglio, nelle strade e nelle arene televisive (dopo la caduta del divieto di talk show).
Fa quindi un certo effetto vederli ora non soltanto separati dai ruoli – lei senatrice, lui fuori dal Parlamento per sua volontà, ma deciso a riprendersi la scena, prima e dopo l’intervista rilasciata a Lucia Annunciata a “In Mezz’ora in più”. Dibba e Taverna non potrebbero ora essere più distanti: li separa il giudizio sul governo Conte (lei a favore), la contrarietà di lui all’alleanza con il Pd, e la vicinanza o lontananza dal fondatore Grillo, che di quell’alleanza è sostenitore. E ancora: li divide l’immagine del Movimento (Taverna è contro l’idea di un congresso, Dibba lo ha provocatoriamente invocato), e la scelta delle priorità (Taverna ha detto chiaramente che il M5s non può più essere soltanto il movimento “della denuncia e della protesta”, Di Battista sta raccogliendo consensi interni con la fronda sulle nomine). E se la dicotomia tra gli ex tribuni romani non si può nascondere, le linee di frattura sotterranea confermano il sintomo di un M5s in crisi di identità e in cerca di autore. Con Dibba, sulle nomine, e quindi di fatto sul resto, si schierano infatti l’ex ministro Barbara Lezzi e l’ex ministro Giulia Grillo (e qui c’è chi non senza malizia pensa: ma non c’entrerà anche il fatto di essere state ministre nel Conte 1 ma non nel Conte 2?). Ma intanto in Parlamento Lezzi ha trovato un’oppositrice nella deputata Gilda Sportiello, area Roberto Fico, che ha trovato le critiche di Di Battista (e Lezzi) sulle nomine pretestuose.
Lo stesso Fico, ai tempi del governo gialloverde considerato dissidente interno rispetto alla linea Di Maio, si trova nella posizione di chi vuole salvare Conte e e il governo rossogiallo, e se questo al momento vuol dire silenziare le annose divergenze con il ministro degli Esteri pazienza (ma neanche Di Maio può dire tutto quello che pensa, tranne che sul congresso voluto da Dibba: “Non credo sia una priorità per l’Italia”, ha detto). E c’è chi nel M5s ricorda quando, nel gennaio scorso, dopo le dimissioni del Di Maio capo politico, la linea di divisione interna correva lungo l’asse dei fedelissimi del ministro, da Alfonso Bonafede a Riccardo Fraccaro, rispetto ai moderati (che pensavano allora a un futuro ruolo da leader per Stefano Patuanelli) e ai fan di Paola Taverna. In tempi di reggenza di Vito Crimi, e in piena emergenza sanitaria, il conflitto interno è però riesploso a Roma, dove Virginia Raggi, oltre alla storica “nemica” Roberta Lombardi, ha da tempo un pungolo in Monica Lozzi, presidente m5s del VII municipio, già più volte non ha condiviso le scelte del sindaco (e recentemente l’ha accusata di “bullismo istituzionale”). Animi esacerbati, dunque, su cui – non bastasse – è piombato il caso Maduro.