Biondi e la guerra vinta con i mozzorecchi
Ricordi dell’avvocato entrato nella storia con il carico ingombrante della verità
Alfredo Biondi era un uomo imponente e fragile, talvolta deliziosamente barcollante nel giardino di Bacco, sincero, amichevole, leale, onesto e galantomista fino al punto che tutti si domandavano come potesse aver fatto una supercarriera di avvocato e di politico roboante e brillante nella fossa dei serpenti del liberalesimo di partito all’italiana. Poi svestì i panni umani comuni e diventò un caso, anzi un decreto, il Decreto Biondi. Il decreto, al tempo del primo governo Berlusconi del 1994, diceva una cosa semplice, ma complicata se enunciata nella scia del Grande Terrore di giustizia sommaria e di onestà esibita che si era impadronito del paese: non si può tenere in carcere preventivo a scopo di tortura e confessione il colletto bianco, la classe dirigente del paese, l’eletto del popolo, il manager, l’indagato per corruzione o finanziamento illegale dei partiti, insomma non si può fare quello che hanno fatto Borrelli e Di Pietro e gli altri del pool tra il 1992 e il 1993 (e seguenti).
Biondi aveva passato la vita tra i cavilli procedurali e le disquisizioni della bottega liberal-radicale, era un incantatore di assemblee nel vecchio stile della retorica parlamentare, la sua abilità e bonarietà arcigna fecero di lui più volte un ministro su cui i governi della Repubblica contavano. Quando diventò un Decreto, quando decise di firmarlo e rendersene responsabile in prima persona, Biondi diventò un altro, un borghese conservatore che rompeva radicalmente con il suo ceto o ambiente possibilista e codardo nel segno della battaglia contro il giacobinismo delle procure combattenti e delle tricoteuses del popolo dei fax affacciate sui patiboli e le gogne italiane.
Indimenticabile il suo occhiolino al portavoce del governo e ministro per i Rapporti con il Parlamento, quando lo autorizzò a portare in sala stampa, subito dopo il voto in Consiglio, il testo del decreto notturno per evitare che in sede di “coordinamento” i funzionari di Palazzo Chigi esercitassero la loro proverbiale prudenza di azzeccagarbugli svuotando il decreto salvaladri del suo contenuto politico: sottrarre l’arma della custodia preventiva in carcere ai mozzorecchi che usavano la campagna di sradicamento morale della corruzione come una clava per abbattere la Repubblica costituzionale e sostituirla con un animale ignoto ma feroce e antigiuridico.
Biondi vinse la sua guerra, nonostante le apparenze. Prima che Berlusconi sciaguratamente, per lui e per il suo progetto, abbandonasse il decreto ai cani (quelli che più latrarono si chiamavano Fini, Bossi e Maroni: e ho detto tutto), il pool di Mani pulite si riunì in postura televisiva nel prime time e disse collettivamente e letteralmente che quella legge toglieva loro l’arma per indagare: senza la custodia preventiva in carcere, con il suo contorno di suicidi e di umiliazione, non potevano fare ciò che avevano fatto contro i criteri più sacri dello stato di diritto e della Costituzione più bella del mondo. Di Donato, Di Lorenzo e altri simboli del malaffare partitico furono scarcerati e poi rispediti al gabbio; il decreto fu dato per morto sotto i colpi dell’opinione pubblica e con la fuga scomposta e suicida della maggioranza, che virtualmente si sciolse al suo primo atto qualificato; il ministro Guardasigilli fu insultato e vilipeso ad personam come un paglietta dalla stampa intortata dagli editori-pagatori-di-tangenti; le solidarietà garantiste si contarono sulle dita di una mano: eppure con quella dichiarazione del pool tutti capirono come stavano le cose, la galera erogata a grappolo era uno strumento di indagine, non la conseguenza della legge penale, e aveva un intento subdolamente politico.
Divenuto Decreto, l’avvocato Biondi entrò nella storia con il carico ingombrante della verità, mentre coloro che lo lasciarono solo o gli diedero del paglietta si tenevano la scena di una cupa tragicommedia che abbrutì una nazione europea e ne riscrisse la storia con la leggerezza della menzogna. Con Memmo Contestabile e Alfredo Biondi chi scrive – eravamo un terzetto di gigioni del garantismo – rise di gusto di quel paradosso, e la speranza è che Biondi sia morto con quel sorriso ancora stampato sul suo viso di galantuomo.