Mille giorni. I referendum sull'autonomia meritano risposte

Andrea Giovanardi e Dario Stevanato

Gli obiettivi non raggiunti, le molte occasioni perse e la politica miope. Ma non tutto il tempo è stato sprecato

In questo strano mese di luglio, tra ritorno alla normalità e paura della ricaduta, si celebra, sommessamente, un anniversario, quello dei 1.000 giorni dalla celebrazione dei referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia, tenutisi il 22 ottobre 2017 (data simbolica in quanto in un altro 22 ottobre, quello del 1866, il Veneto veniva annesso al Regno d’Italia a seguito di quello che, secondo una certa storiografia, fu un “plebiscito truffa”).

 

In quella domenica autunnale quasi 2,3 milioni di veneti e circa 2,9 milioni di lombardi (rispettivamente il 56,6 per cento e il 36,4 per cento del totale degli elettori) hanno espresso, in una consultazione la cui legittimità era stata sancita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 118 del 2015, un voto favorevole alla richiesta da parte delle regioni di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” ai sensi dell’art. 116, co. 3, Cost., il quale, inserito nella Carta con la riforma del Titolo V della Seconda parte della Costituzione del 2001, permette alle regioni a statuto ordinario di ottenere, nelle materie ivi indicate (sono 23, tra cui la tutela della salute, l’istruzione, la tutela dell’ambiente e la valorizzazione dei beni culturali), funzioni e competenze diverse e ulteriori rispetto a quelle ordinariamente riconosciute alle autonomie regionali.

 


E’ impensabile affrontare il post pandemia con l’attuale assetto distributivo: è inaccettabile che il sud arretri e i suoi cittadini siano costretti a vivere in situazioni discriminanti e che il nord, zavorrato da eccessive pressioni fiscali e burocrazie oppressive, non cresca, fallendo nel ruolo di traino dell’economia nazionale


 

Un risultato storico, ottenuto malgrado l’opposizione del governo, che aveva impugnato la legge della regione del Veneto che aveva indetto il referendum: più del 10 per cento degli elettori italiani, residenti in due delle regioni più dinamiche e produttive del Paese, hanno chiesto che vengano affidati agli enti che governano il loro territorio compiti e incombenze che oggi sono gestiti dallo stato, sull’assunto che i meccanismi autonomistici siano in grado di generare efficienza e di rendere, in ragione della vicinanza, più cogente il controllo dei rappresentati sui rappresentanti.

 

Cosa sono riuscite a ottenere le due regioni, a cui si è accodata, senza fare ricorso allo strumento referendario, l’Emilia-Romagna, in questi 1000 giorni? Nulla, sostengono i più, perché a oggi, malgrado la trattativa instauratasi fin dal dicembre del 2017 e l’iniziale accelerazione culminata nella firma di pre-intese con il governo Gentiloni a ridosso delle elezioni politiche del 2018, non si è arrivati ad alcun accordo. Siamo quindi ben lontani dal vaglio parlamentare che la Costituzione prevede per “ratificare” le intese bilaterali su cui si fonda la differenziazione delle competenze.

 

Avendo vissuto in prima persona la trattativa come componenti della Delegazione trattante per l’autonomia del Veneto, un simile giudizio ci pare tuttavia sbagliato, per le ragioni che qui di seguito si espongono.

 

Anzitutto, intervenire su una ripartizione delle competenze fondata sull’idea che le regioni a statuto ordinario debbano essere tutte uguali, a prescindere non solo dalla specialità di altre regioni (che, peraltro, “circondano” il Veneto), ma anche dalle condizioni, diversissime, dei territori governati, è obiettivo molto difficile da raggiungere. Occorre infatti ribaltare: i) il deleterio paradigma dell’“uniformità”, che ha caratterizzato la storia d’Italia fin dall’unità; ii) la tesi della supremazia/preminenza (a prescindere) dello stato, a cui si attribuiscono salvifici poteri in ogni ambito, dalla capacità di influire sullo sviluppo economico dei territori a quella di intervenire con maggiore efficacia in situazioni straordinarie (vd. pandemia da Covid 19), fino a quella di garantire al meglio l’uguaglianza dei cittadini e il principio di solidarietà. Per cambiare atteggiamenti culturali così radicati, 1.000 giorni sono un tempo estremamente limitato.

 

L’iniziativa delle tre regioni è, peraltro, di per sé meritoria poiché ha dato origine a un vivace dibattito che si è incentrato, oltre che sui profili (soprattutto finanziari) dell’autonomia rafforzata, sulle ragioni dell’endemico divario nord-sud, e, quindi, in definitiva, sulla questione meridionale: si è ritenuto da molti che le proposte delle tre regioni contravvenissero alle consolidate regole della convivenza dei cittadini all’interno della stessa nazione, determinando un ulteriore ampliamento del divario socio-economico a danno delle regioni del sud per effetto della prefigurata erosione della dotazione finanziaria di cui attualmente queste ultime dispongono. La questione, a nostro avviso, riguarda invece la sostenibilità di un assetto distributivo che obbliga le regioni del nord, che faticano a crescere, a destinare risorse, mercé l’intermediazione dello stato, alle regioni del sud (secondo Svimez, soggetto da sempre schierato contro ogni ipotesi autonomistica, per un importo di 50 mld di euro circa l’anno, cfr. rapporto 2018), senza che ciò abbia contribuito alla crescita del Mezzogiorno (il cui PIL reale anzi è diminuito negli ultimi vent’anni). Un paese fortemente squilibrato, quindi, in cui chi dà cresce pochissimo e chi riceve non cresce affatto, vedendo oltretutto fortemente limitati e compressi i diritti civili e sociali dei suoi cittadini. Ci si dovrebbe chiedere non già se il nord trasferisce troppo poche risorse al sud, quanto se sia possibile mantenere o addirittura incrementare il livello dei trasferimenti, come un certo pensiero “meridionalista” sostiene, senza porre le imprese, che tengono a galla l’intero paese, in una situazione di incolmabile svantaggio competitivo con i concorrenti esteri. Le polemiche nei confronti dell’autonomia (riassumibili nello slogan, fortunato quanto mistificatorio, della “secessione dei ricchi”) sono, da quest’angolo visuale, perfino incomprensibili perché non tengono conto del fatto che: i) l’attuale situazione non favorisce il sud, che, anzi, sta letteralmente sprofondando in una voragine senza fondo; ii) i presunti “ricchi” non sono tali, visto che stanno progressivamente impoverendosi.

 

In questo contesto, particolarmente difficile, la trattativa sembrava potersi concludere positivamente: le proposte delle tre regioni sono finite sul tavolo del consiglio dei Ministri (nel febbraio e all’inizio dell’estate del 2019), il quale non le ha mai formalmente respinte. I testi ci sono, molto lavoro è stato fatto, del numero degli incontri ai tavoli ministeriali si è quasi perso il conto: se ci fosse una reale volontà politica da parte del governo (che, tuttavia, non pare esserci, visto che si è tentato di fare melina ipotizzando di introdurre una legge cornice statale che avrebbe dovuto determinare i principi e i criteri della differenziazione), si potrebbe essere ottimisti sul buon esito del confronto interistituzionale.

 

Tutto ciò anche perché le proposte delle tre regioni non sono divisive e disgreganti. Si parte dalla spesa storica, con la conseguenza che quello che spenderebbe lo stato per le funzioni trasferite lo spenderà la regione; si dovrebbe arrivare, dopo tre anni, ai fabbisogni standard in piena aderenza all’art. 1 della l. n. 42 del 2009, il quale impone il superamento dell’iniquo criterio della spesa sostenuta fino a quel momento (che premia gli spreconi e danneggia gli efficienti); si fa ricorso, ai fini del finanziamento, all’unico strumento costituzionalmente possibile, le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali (o quelle particolari tipologie di compartecipazioni che sono le riserve d’aliquota, le quali consentirebbero perfino di ottenere, a Costituzione vigente, una non trascurabile forma di vera autonomia tributaria). Su quest’ultimo punto si è innescato un dibattito sulla destinazione delle eventuali maggiori risorse che resterebbero alla regione in caso di aumento del gettito dei tributi erariali compartecipati (come conseguenza dell’aumento del PIL regionale). L’idea che tutto il maggior gettito debba restare allo stato è l’esatto contrario dei principi di efficienza e responsabilità, e farebbe venir meno ogni incentivo alla buona amministrazione delle nuove competenze regionali. D’altra parte, i pasdaran del “solidarismo” trascurano che una parte consistente di questo maggior gettito finirebbe comunque allo stato, sicché potrebbero crearsi situazioni win win, in cui anche lo stato otterrebbe più risorse di quante ne avrebbe ottenute sulla base dell’attuale situazione; né si può pretendere che chi si addossa ulteriori funzioni e competenze lo faccia sulla base del penalizzante criterio della spesa storica (per quel che riguarda la spesa statale regionalizzata pro capite le tre regioni sono agli ultimi posti della classifica) senza poter contare, come incentivo, sulla possibilità di trattenere, almeno in parte, quelle risorse derivanti dall’incremento di gettito alla cui realizzazione le traiettorie autonomistiche abbiano contribuito.

 

E’ da qui che dopo 1.000 giorni bisogna ripartire, non da inutili leggi quadro, peraltro nemmeno previste dalla Costituzione. Dopo la pandemia, i mesi e gli anni che affronteremo saranno difficilissimi. E’ impensabile affrontarli con l’attuale assetto distributivo: è inaccettabile che il sud arretri e i suoi cittadini siano costretti a vivere in situazioni discriminanti o ad emigrare, e che il nord, zavorrato da un’eccessiva pressione fiscale e da una burocrazia uniformemente oppressiva, non cresca, fallendo nel ruolo di traino dell’economia nazionale. L’autonomia differenziata delle regioni più dinamiche ed efficienti è quindi uno strumento che va utilizzato non per premiare l’egoismo dei (presunti) ricchi, ma per cercare di restituire al Paese quelle prospettive di crescita che lo statalismo centralista non è in grado di garantire.

 

Andrea Giovanardi, ordinario di diritto tributario, Università di Trento

Dario Stevanato, ordinario di diritto tributario, Università di Trieste

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