Luigi Di Maio alla Camera coi deputati del M5s (foto LaPresse)

maggioranza in tilt

Così il caos grillino trasforma il rinnovo delle presidenze di commissione in un rodeo

Valerio Valentini

Al Senato la maggioranza va sotto in commissione Agricoltura e Giustizia. E Montecitorio è in subbuglio. Il nodo Marattin, le trame della Boschi. Ma nel M5s è guerra, tra diserzioni e minacce incrociate

Roma. Che all'appuntamento ci si stesse arrivando correndo troppo e senza certezze, viaggiando un po' a fari spenti nella notte, lo sospettavano in tanti, in Transatlantico. E infatti, quando dal Senato arriva la notizia che l'imboscata è riuscita, che quel maneggione di Gian Marco Centinaio è riuscito a convincere gli ex grillini (e anche un paio di grillini attuali) a votare contro l'ordine di scuderia, confermando così il leghista Vallardi presidente della commissione Agricoltura al posto del prescelto a cinque stelle, Pietro Lorefice, nessuno s'è stupito più di tanto. Era inevitabile che succedesse. E subito dopo crolla anche la diga in Giustizia, dove del resto si sapeva che Pietro Grasso, di Leu, era a rischio: e infatti viene riconfermato il leghista Andrea Ostellari. E allora Luigi Di Maio, insieme a tutti i ministri grillini, arriva trafelato a Montecitorio per votare lo scostamento, raduna i suoi e prova a calmarli, a fare chiarezza. Ma l'impresa, ancora in corso, è assai ardua-

 

Tra i deputati del M5s, d'altronde, ieri sera mugugni erano talmente tanti, i puntigli erano così infantili, che perfino alcuni di loro hanno perso le staffe. “Guardate che anche a noi – ha sbottato Diego De Lorenzis, durante la riunione di gruppo a Montecitorio – dovremo turarci il naso, per votare quella là, ma rispettiamo gli ordini del gruppo”. Quella là, che poi sarebbe Lella Paita, è infatti la presidente designata per la commissione Trasporti. Renziana, e dunque indigesta all’ortodossia grillina. Ma mai come il candidato individuato dalla maggioranza per la presidenza delle Finanze: “Luigi Marattin è uno che ci ha dato dei cialtroni per anni, e noi ora dovremmo sostenerlo?”. E’ quello il nodo: Luigi Marattin.

 

Nodo che certo non basta una notte a sciogliere. E dunque stamattina ci si è ritrovati sempre lì, a interrogarsi sul da farsi per evitare che l’incidente sulla Finanze ne innescasse altri a catena, fino a un poco controllabile precipitare degli eventi. Il corpaccione del M5s lo detesta, Marattin, e prova a porre il veto. “Ma il veto sui nomi non rientra nell’accordo”, s’impunta allora Maria Elena Boschi. “Perché se noi dovessimo valutare nel merito la qualità dei candidati grillini – spiega la luogotenente di Iv – la lista dei divieti sarebbe lunghissima”. E quindi Davide Crippa, capogruppo alla Camera del M5s, si ritrova costretto a minacciare addirittura di sostituire i suoi esponenti che, in Finanze, si rifiutano di votare Marattin. Giulodori, Maniero, forse anche Currò. E poi c’è Carla Ruocco, già presidente di quella commissione, che dice di avere a disposizione tre voti: “I miei Marattin non lo votano”. E allora la Boschi fa il giro largo: potrebbe spostare Marattin alle Attività produttive, magari, per ottenere al contempo la Finanze del Senato, con Mauro Marino. E invece, pacta sunt servanda, insiste: blinda l’accordo, o tenta di farlo, garantendosi i voti degli esponenti di Forza Italia, almeno tre, che in Finanze si sottraggono alle trame dei leghisti che, fiutata la puzza di bruciato, prova a organizzare l’imboscata coinvogliando tutti i voti che trova sull’ex grillino Raffaele Trano, che già qualche mese fa aveva scippato al suo collega Grimaldi. E la stessa cosa succede per la Trasporti: anche qui la Paita, che subisce il lavoro ai fianchi anche di un pezzo del Pd – Luca Lotti gli farebbe volentieri lo sgambetto, Davide Gariglio, che a quella presidenza ci puntava, forse s’ammutina – ce la farebbe solo coi voti di una pattuglia di riserva di berlusconiani. Immagine di un partito, Iv, che a furia di starci con un piede solo, nella maggioranza, rischia infine di venirne estromesso nella spartizione delle poltrone, e che pure per ottenere il minimo sindacale (all’inizio i renziani chiedevano la Bilancio e la Affari costituzionali, s'accontenteranno di quattro commissioni, tra Camera e Senato, di seconda fascia) è costretto alle capriole sul filo, interrogandosi se a questo punto non sia davvero il caso di chiamarsi fuori da questa corsa allo sfinimento e cercare nuovi spazi all’opposizione.

 

Ma in fondo è tutto in subbuglio: sul rinnovo delle presidenze di commissione, su cui si sgomita e si contratta da due mesi almeno, si scaricano tutte le tensioni tra alleati riluttanti, dirimpettai litigiosi. Per la Ambiente, ad esempio, il Pd aveva pensato a Del Basso De Caro. E allora subito i grillini sono andati dai leghisti a prospettargli l’indicibile accordo: “Aiutateci ad affossarlo”. Poi il Pd ha cambiato. E il solito Lotti, dopo aver tentato invano di imporre il suo Piero De Luca alla presidenza della Affari europei (con tanto di incontri carbonari coi grillini), s’è intrufolato nella Ambiente: “Ecco, Piero è la persona giusta”. Se non fosse che Piero, però, è anche figlio di quel Vincenzo De Luca che ai grillini campani fa venire il sangue agli occhi. E quindi niente: non s’ha da fare.

 

Anche perché, dal Senato, nel frattempo arriva la notizia che l’intesa s’era chiusa già. E Andrea Marcucci, a quanto pare, s’è scordato le quote rosa: solo la Pinotti alla Difesa, per il resto i prescelti sono tutti uomini: D’Alfonso in Finanze, Parrini in Affari costituzionali, Stefano agli Affari europei. E allora alla Camera tutto s’ingarbuglia e all’Ambiente va la Rotta. Ma nell’ansia di non passare per sessisti, si finisce pure per mettere in discussione la Attività produttive, che dopo tanto contrattare (anche qui i grillini in ordine sparso, divisi tra Giarrizzo e Carabetta) era destinata a Gianluca Benamati, che d’improvviso si vede insediato da Martina Nardi.

 

Insomma, un caos. A cui ovviamente il M5s contribuisce con un sovrappiù di autolesionistico zelo. E così Leonardo Donno, capogruppo dei grillini in quella commissione Bilancio che dovrebbe finire sotto la guida del franceschiniano Fabio Melilli, a metà pomeriggio alza la voce: “Secondo me il direttivo, Crippa e Ricciardi in primis, hanno fatto accordi al ribasso non facendo valere la forza parlamentare del M5s, di fatto non tutelandolo. E dunque io, per come sono state condotte le trattative, mi dimetterò da capogruppo”. Se non fosse che a dimetterlo c’hanno già pensato i suoi colleghi, giorni fa, con una votazione interna che lui ha contestato, chiedendo inutilmente il riconteggio delle schede. Nel frattempo, i grillini della commissione Esteri, piuttosto che rassegnarsi a votare Piero Fassino, scrivono una lettera di proteste a Crippa, e la consegnano alle agenzie. Che si sappia che loro, all'unanimità, condannano l'accordo politico. E alla Camera si comincia tra poco, a votare. E ci si arriva così: a fari spenti nella notte. "Meglio rinviare", scrivono in chat i deputati del M5s. "Se si va avanti così, si rischia il bagno di sangue". 

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