Il problema dell’avvocato Fontana, per un non moralista dunque un moralista vero, è che le bugie, sommo esercizio di arte della politica, bisogna saperle dire. Quando Craxi promise a De Mita che avrebbe con diligenza mollato a lui il governo in una staffetta, questione di poco tempo, la bugia funzionò come un allucinogeno, ci fece volare tutti noi vecchi cronisti politici. Quando Berlusconi si difese dall’aggressione giudiziaria di una piemme che voleva usare con furbizia ambrosiana la “furbizia levantina” della signora El Mahroug, detta Ruby, e escogitò che l’interesse nazionale non poteva sopportare un’inchiesta sulla nipote di Mubarak, a parte la somiglianza impressionante tra lei e il rais egiziano, tutti capirono subito che quella bugia pop valeva oro, bè tutti proprio no, i bacchettoni si inalberarono. Quando l’avvocato Fontana mente sulle date, sui conti e sulla loro movimentazione, su quel che sapeva degli affari del cognato, sulla trasformazione peraltro parziale di un mezzo business in una mezza donazione, l’impressione è di meschineria, una cosa da ragiunat, una robina che non vale gran che.
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