Non è certo la quantità dei parlamentari che fa la rappresentatività
Un Parlamento meno pletorico e più autorevole potrebbe essere più impermeabile alle pulsioni populiste e plebiscitarie
Il “pentalogo” a sostegno del “Sì riformista” al referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, proposto su queste colonne da Stefano Ceccanti, è (a mio modo di vedere) definitivo e conclusivo. Mi limito dunque a proporre tre chiose.
La prima, se si vuole più banale, la ricavo dalla mia esperienza “territoriale”. Il Trentino-Alto Adige elegge oggi 7 senatori e 10-11 deputati, a seconda del gioco dei resti. A quanti mi dicono di essere contrari alla riduzione del numero dei parlamentari, perché mortificherebbe la rappresentanza, rispondo chiedendo loro di dirmi almeno cognome e partito di appartenenza, non di tutti, ma di metà di questi 18 nostri rappresentanti in Parlamento. Nessuno, nemmeno militanti o dirigenti di partito, è in grado di farlo senza ricorrere a google. Dunque, a voler essere “riformisticamente” prudenti, non è certo che riducendo il numero degli eletti (nel caso in specie da 17-18 a 12) migliorerebbe l’autorevolezza rappresentativa dei parlamentari, ma è almeno possibile, se non probabile, che succeda. Difficile invece che la situazione possa peggiorare. Del resto, qualcuno conosce una figura parlamentare più autorevolmente rappresentativa del senatore Usa? Eppure, i senatori americani sono cento in tutto, due per Stato. Dunque, non è la quantità che fa la rappresentatività, ma forse (sottolineo forse) proprio il contrario.
Seconda chiosa. Se c’è un nemico storico del riformismo costituzionale, è il “complesso del tiranno”. Si può quindi pensarla come si vuole sul taglio dei parlamentari, ma non si può definirsi riformisti e ricorrere, nel contrastare la riforma, all’argomento principe di tutti i conservatorismi, di destra come di sinistra. Non si può dire, da riformisti, che il taglio dei parlamentari uccide, o anche solo indebolisce la democrazia. Perché non è vero, come abbiamo visto, per la rappresentatività. Perché non è vero per il pluralismo: il fatto che alcuni territori possano essere rappresentati in Parlamento solo da una o al massimo due forze politiche di per sé non ha nulla di antidemocratico, è così da secoli nel Regno Unito e da decenni in Spagna. E non è vero nemmeno per le garanzie: arrivo a dire che, ad esempio, un maggior peso relativo della componente regionale, rispetto a quella parlamentare, nel collegio dei grandi elettori del presidente della Repubblica, non può che accrescere le garanzie di terzietà del capo dello stato. Un Parlamento meno pletorico e più autorevole potrebbe insomma rappresentare perfino un rafforzamento garantista rispetto a pulsioni populiste e plebiscitarie.
Terza chiosa. Il parlamento moderno nasce 800 anni fa con la Magna Charta Libertatum: i Lord imposero a re Giovanni il principio per il quale il sovrano non poteva decidere da solo come spendere i denari frutto dell’imposizione fiscale, ma doveva essere autorizzato a farlo dai rappresentanti dei contribuenti. Ancora oggi, nel parlamento britannico, è la Corona, cioè il governo, a disporre del monopolio della proposta in materia di spesa. E il parlamento è la sua controparte, che vaglia e approva le proposte e valuta a posteriori come le risorse sono state spese (spending review). Questo dualismo è reso più complesso, ma non vanificato, dalla forza del partito che esprime il Primo Ministro. Alla Costituente, Einaudi (sostenuto da Vanoni) propose di adottare il modello inglese e di riservare al governo il potere di iniziativa in materia di spesa. La proposta non passò e il parlamento italiano è diventato sempre più l’assemblea dei rappresentanti di tutte le lobby di spesa, anziché il guardiano dei contribuenti. Sarebbe inguenuo, o intellettualmente disonesto, sostenere che la riduzione dei parlamentari possa far rivivere la proposta del primo presidente della Repubblica. Ma potrebbe rappresentare una condizione, certo non sufficiente, ma forse necessaria, per questa come per tante altre battaglie riformiste.