il dibattito sul referendum
Mara Carfagna ci spiega che si può votare Sì, ma solo a certe condizioni
Il taglio dei parlamentari ha senso solo se i partiti renderanno efficiente il nuovo sistema. La necessità di lavorare con una maggioranza più ampia per evitare di pagare un tributo al populismo anti casta
Nella storia della nostra Repubblica si sono tenuti finora 72 referendum, solo tre dei quali costituzionali. Il voto di settembre sulla riduzione del numero dei parlamentari sarà il quarto: prevedere il successo del “Sì” è abbastanza scontato, anche perché a differenza del referendum del dicembre 2016 sulla riforma Renzi-Boschi e di quello del 2006 sulla Devolution proposta dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, stavolta “tifano” per il Sì sia la destra, sia la sinistra, sia il Movimento cinque stelle (anche se ovunque stanno emergendo perplessità).
Non mi convince il tentativo di spacciare questa riforma per una scelta ragionata che aprirà automaticamente una nuova e migliore stagione. Sappiamo tutti che è il pedaggio pagato al movimento di Beppe Grillo dalla Lega e dal Pd e che andiamo al referendum perché, in seconda lettura al Senato, Forza Italia ha fatto mancare la maggioranza qualificata non partecipando al voto (segno che i dubbi erano diffusi anche ai vertici del partito). E tuttavia le polemiche col senno di poi mi sembrano inutili. E’ necessario essere pragmatici: la riduzione a partire dalla prossima legislatura sarà probabilmente confermata. Ma la responsabilità di farla funzionare toccherà a noi, al Parlamento attualmente in carica.
Sarebbe bene che i partiti, fin da ora, insediassero un tavolo di confronto: una vittoria del Sì senza le necessarie revisioni non solo della legge elettorale ma dei regolamenti parlamentari, delle norme che fanno funzionare le Commissioni e tutto il complesso apparato della rappresentanza finora “tarato” su altri numeri, rischia di bloccare la nostra democrazia.
Non è un pericolo teorico ma molto pratico, e da vicepresidente della Camera ne sono forse più consapevole di altri. L’Italia, già resa fragile dalla sostanziale sospensione di molti diritti democratici nel lockdown, nonché dallo stato d’emergenza più lungo d’Europa, non può permettersi di archiviare uno degli elementi fondanti dell’intero processo democratico – la composizione del Parlamento incardinata dalla Costituzione – senza avere idea di come organizzare il nuovo assetto.
Tra due mesi gli attuali emicicli di Camera e Senato, quei semicerchi di poltroncine rosse che gli elettori sono abituati a vedere in tv, diventeranno all’improvviso “roba del passato”. Con il probabile Sì referendario, metà di quelle assemblee saranno già virtualmente cancellate e comunque fortemente delegittimate. “Ancora qui?”, si chiederanno i cittadini vedendo le riprese dall’alto delle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama. Non avranno tutti i torti. Quattro passaggi parlamentari, col voto a staffetta di tutti i gruppi (tranne Più Europa), hanno già giudicato quelle Aule sovrabbondanti, pletoriche, inutili. Il placet della vox populi avrà confermato la sentenza. “Ancora qui?” sarà, insomma, una domanda lecita.
Il solo modo che l’attuale Parlamento avrà per rispondere, per giustificare la sua permanenza, il suo desiderio di resistere fino all’elezione del presidente della Repubblica è impegnarsi davvero per rendere efficiente il “nuovo mondo” scaturito dal referendum e per dimostrare che il dimezzamento delle assemblee non è solo un tributo al populismo anti casta ma qualcosa di più. Questa operazione va fatta cercando un consenso più largo dell’attuale pericolante maggioranza. Va fatta pensando all’efficienza delle Camere e non solo agli interessi dei gruppi. Va fatta bene. In modo responsabile. E forse, così, sarà un’occasione per riabilitare la nostra screditata democrazia parlamentare.
Il solo referendum costituzionale della storia italiana che ha passato il vaglio degli elettori è stato, finora, quello che diciotto anni fa ha modificato il Titolo V della Costituzione. Parteciparono appena sedici milioni di italiani. Il Sì fu tutt’altro che plebiscitario. Ottenne il 64 per cento, poco più di dieci milioni di voti, e tuttavia furono sufficienti: è un tipo di consultazione che non richiede quorum. Col senno del poi e per riconoscimento collettivo (anche delle sinistre che la promossero) quella riforma fu un errore, un esperimento fallimentare che ha indebolito e confuso la nostra democrazia, tanto che sia la Devolution sia la Renzi-Boschi furono messe in pista per correggerla.
Ecco, facciamo tesoro di quella esperienza, evitiamo di produrre un nuovo guaio. La conferma al taglio dei parlamentari è ipotesi più che concreta. A maggior ragione, per coerenza, non mi riconosco tra chi ha votato a favore della riforma in Parlamento e oggi invece ne prende le distanze, sostenendo la campagna per il No. Ma so bene che questa non è la soluzione migliore per l’equilibrio delle nostre istituzioni e dunque dico: mettiamoci subito a studiare – maggioranza e opposizione, allo stesso tavolo, con spirito patriottico – per rendere più efficiente il sistema che risulterà dal referendum e scongiurare il rischio che generi effetti collaterali devastanti.
*vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia