È ora di un'agenda anti cialtroni
Basta con la politica come arte del galleggiamento tra un’elezione e l’altra. La vita pubblica italiana si è polarizzata tra un populismo sovranista e una sinistra che ha solo aggiornato il suo vecchio armamentario. Ma l’alternativa liberal-democratica è ancora possibile. Un manifesto
Nel 1902 un pensatore rivoluzionario pubblicava un contributo al II Congresso del Partito operaio social-democratico in cui propugnava la necessità di una “lotta decisa contro questo orientamento amorfo e mal definito, ma perciò tanto più stabile e capace di rinascere sotto forme diverse”. Il rivoluzionario era Lenin, il contributo era il Che fare? e l’“orientamento amorfo e mal definito” era l’opportunismo economista che, cercando di blandire il consenso dei capitalisti negando le finalità ultime del socialismo, stava a suo dire pregiudicando le possibilità di una vera rivoluzione collettivista. Centoventi anni dopo, la rivoluzione socialista si è realizzata, ha governato mezzo pianeta per decenni ed è crollata sotto il peso dei suoi fallimenti e delle sue illusioni. E per quanto riguarda i maestri del pensiero politico internazionale siamo passati da Lenin a Steve Bannon, a conferma che anche quel filone del pensiero marxista che prediceva l’evoluzione continua dell’umanità si è poi rivelato totalmente infondato. Il paragone con gli strani tempi odierni, quindi, non potrebbe essere più inappropriato.
Tuttavia, la “Cosa” che da un decennio si aggira per il mondo – e che convenzionalmente chiamiamo “movimento sovranista-populista” – ha impressionanti analogie con quell’orientamento politico contro cui Lenin si scagliava a inizio Novecento. È “amorfo e mal definito” perché è privo di solidi e unanimemente riconosciuti riferimenti culturali, ma – da Trump a Bolsonaro, passando per Orbán e Farage, Duda, Le Pen e Salvini – assume forme diverse che mal si prestano a una sistematizzazione unica e coerente delle proprie caratteristiche definitorie. Ma a maggior ragione, l’orientamento populista sembra ormai “stabile” nel panorama politico internazionale e sembra sempre “capace di rinascere sotto forme diverse” anche dopo sporadiche sconfitte. Soprattutto, proprio come l’opportunismo contro cui si scagliò Lenin all’alba del secolo scorso, mira a destrutturare ogni pensiero politico in nome dell’unica cosa che conti: ottenere con la parola un consenso immediato, al quale far seguire – prima che colui che ha offerto il consenso abbia tempo di pretendere un risultato pratico – altre parole foriere di altro consenso immediato. È un virus altamente contagioso, e che può colpire tutti. Perché tutti, in fondo, siamo almeno una volta tentati dallo sposare la soluzione più semplicistica, che ci fa sentire più forti di tutti e ci culla nella sua forte e autoreferenziale assertività, rifuggendo da qualsiasi fatica del fare e del pensare. Una consapevolezza, questa, che fa aggiornare la famosa frase di Gaber: non ho paura del populista in sé, ma del populista in me.
Finora il “Che fare?” antipopulista ha partorito – con l’unica e rilevantissima eccezione di Macron in Francia – una socialdemocrazia 4.0, che essendo culturalmente sottomessa alla ventata populista si è limitata ad aggiornare il vecchio armamentario socialdemocratico (prevalenza del ruolo dello stato, sfiducia nelle capacità allocative del mercato, utilizzo estensivo della leva fiscale a fini ridistribuivi) con innesti movimentisti: ambientalismo più o meno radicale, rifiuto della leadership, cedimenti alla comunicazione sloganistica, malcelata diffidenza verso la globalizzazione. È un’offerta politica piuttosto omogenea dal punto di vista internazionale: l’ala del Partito democratico americano che si riconosce in Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, il vecchio Labour di Jeremy Corbyn, Podemos in Spagna, il partito socialista francese e il recente matrimonio strutturale tra Pd e M5s in Italia. Perciò qui nel Bel Paese, stante anche la lenta agonia del vecchio centrodestra moderato, ai tanti che non si rassegnano a dover scegliere tra Zingaretti/Di Maio e Salvini/Meloni rimane l’eco di quella domanda che risuona triste e melanconica nell’aere. Che fare?
Se ci pensate bene, come sempre nella storia politica italiana, finora le domande rilevanti sono state altre. “Come fare?”, per gli appassionati di dinamiche tattiche inerenti congressi, fusioni o convergenze tra forze politiche o tra le correnti di un partito. O “chi deve fare?”, per la ancor più nutrita pattuglia di coloro che sono convinti che l’alfa e l’omega dell’agire politico sia la leadership, e non che essa sia parte di una inscindibile trinità composta anche da contenuti/messaggio e organizzazione.
Chi scrive però è un inguaribile ingenuo e, nonostante tutto, continua a credere che i processi politici si costruiscano sulla base di una visione di società che non si esaurisca in una sloganistica elencazione di un cumulo di banalità (e quante ne abbiamo lette in agosto!) ma che si sostanzi in azioni e policies dall’elevato contenuto di concretezza e spendibilità. E allora proviamoci, senza nessuna pretesa di esaustività né di particolare originalità, caratteristica quest’ultima quasi impossibile da raggiungere in un paese a cui piace così troppo di più scrivere e parlare rispetto al fare. Qual è un possibile “Che fare?”, qui e oggi, in grado di combattere a viso aperto e sconfiggere il sovranismo-populismo e, attraverso un’aggregazione in grado di produrre un progetto politico, “cambiare lo stato presente delle cose” (cit.)?
L’etichetta che daremo a chi crede in quanto verrà esposto prescinde dai cognomi dei potenziali leader e, in mancanza pluridecennale di una stabilità del quadro dell’offerta politica, verrà convenzionalmente usato il termine “liberal-democratici”.
Nessun “che fare?” può mai prescindere dall’analisi di “che è successo?”. Per i sovranisti/populisti, è successo che globalizzazione e ingresso nella moneta unica hanno maleducatamente interrotto una fiorente età dell’oro in cui si poteva andare in pensione prima dei 40 anni, la dimensione ristretta del mercato ci teneva ben lontani da fastidiose pressioni concorrenziali, svalutazione, inflazione e debito pubblico erano tre comode e infinite droghe alle quali si poteva ricorrere ogni volta che si voleva, l’aziendina a conduzione familiare era la carta d’identità economica nazionale, e il calcio era più bello perché le partite si giocavano solo la domenica e non c’era la Var. Da quando un bieco complotto internazionale ha interrotto tutto questo, sono iniziati i nostri problemi. Basta rimuovere quei “disturbatori della nostra felicità” (come Thomas Jefferson chiamava gli inglesi) e tutto si risolverà.
Per i socialdemocratici/movimentisti, è invece successo che la “rivoluzione liberista” di Reagan e Thatcher, propagatasi – a loro dire – in Italia fin dagli anni Novanta, ha silenziato o comunque fortemente limitati i due strumenti principali attraverso cui sviluppare un sistema economico (sempre a loro dire): l’intervento dello stato e l’utilizzo estensivo della spesa pubblica. Basta sdoganare l’utilizzo di questi due pilastri dello sviluppo economico, e tutto si aggiusta.
Per i liberal-democratici, invece, è successo qualcosa di un po’ più complesso. L’Italia, uscita dal disastro della Seconda guerra mondiale come economia essenzialmente agricola, ha nei due decenni successivi realizzato un impetuoso sviluppo basato essenzialmente su tre elementi: i) un forte intervento pubblico, che controllava banche e pezzi significativi dell’industria; ii) un tessuto di piccole imprese a conduzione familiare che ha beneficiato della costruzione dell’Unione doganale e degli alti rendimenti che un’economia a basso stock di capitale notoriamente comporta; iii) un contesto geopolitico internazionale che vedeva l’Italia in una posizione doppiamente strategica: quella di frontiera tra est e ovest dell’Europa e tra nord e sud del Mediterraneo. E pertanto, doveva essere protetta e aiutata in ogni modo dal blocco occidentale, compreso un sostegno economico esplicito (che iniziò col Piano Marshall) e uno meno esplicito ma altrettanto consistente. Completata la fase di cambiamento strutturale da economia agricola a potenza industriale, a fine anni Sessanta, l’Italia si dimostra incapace di gestire i primi dividendi della crescita. Incapace dal punto di vista sociale, con l’esplodere della contestazione dalle cui criminali degenerazioni nacque poi il fenomeno terrorista; e dal punto di vista politico, col fallimento della formula del centrosinistra che avrebbe dovuto gestire la distribuzione dei primi dividendi della crescita e la creazione delle condizioni per la successiva fase di sviluppo. Da allora, il motore sano dell’economia italiana si è bloccato.
Nei successivi due decenni si è preferito “tirare a campare” facendo largo ricorso alle droghe macroeconomiche, la cui funzione – proprio come tutte le altre sostanze stupefacenti – è regalare qualche illusione nel breve periodo nascondendo la realtà sotto il tappeto per poi rivelare tutti i loro danni solo nel lungo periodo. Negli anni Settanta ci siamo dati crescita con la droga della svalutazione e dell’inflazione, e negli anni Ottanta con il debito pubblico. E quando negli anni Novanta – a mondo completamente cambiato – globalizzazione e moneta unica ci hanno disintossicato da quelle tre droghe, è venuta fuori tutta la polvere accumulata sotto il tappeto nei vent’anni precedenti. Vale a dire, è diventata palese l’inadeguatezza della struttura produttiva italiana, del suo stato sociale, del suo sistema fiscale, della sua pubblica amministrazione e probabilmente pure della sua classe dirigente – che proprio da allora cominciò ad abbandonare ogni meccanismo di formazione e selezione – al nuovo mondo che nel frattempo fuori dai confini patri era nato e si stava sviluppando. Ed è da allora – escludendo fiammate di qualche breve e prontamente sedata stagione riformista – che siamo sostanzialmente fermi. Il reddito reale pro-capite di quest’anno è sostanzialmente lo stesso di metà anni Novanta, così come la produttività totale dei fattori, la variabile economica che sintetizza quanto il paese è in grado di favorire l’efficiente combinazione di capitale e lavoro al fine di produrre reddito.
E questo è accaduto non perché la globalizzazione ci ha strappato al nostro giardino dorato (come credono i sovranisti-populisti), perché già da vent’anni stavamo nascondendo polvere sotto il tappeto. E non è accaduto neanche perché per colpa della “rivoluzione liberista” (come credono i socialdemocratici-movimentisti) semplicemente perché essa in Italia non solo non ha mai messo lontanamente piede, ma non ha mai neanche cercato di prenotare un weekend. È accaduto perché l’Italia non ha saputo disegnare le fasi successive del suo sviluppo, adattandosi man mano a un mondo che già con le crisi petrolifere degli anni Settanta era profondamente mutato, ma che con l’apertura dei mercati degli anni Novanta era diventato completamente un’altra cosa rispetto ai primi vent’anni del Dopoguerra, che è il periodo sul quale l’Italia aveva tarato tutto: il proprio sistema istituzionale, il proprio sistema fiscale, il proprio stato sociale, il proprio sistema formativo, il proprio sistema decisionale, il (non) funzionamento dei propri mercati, la pubblica amministrazione, il mercato del lavoro, le relazioni industriali. Tutto.
Ecco, i liberal-democratici alla domanda “che cosa è successo?” rispondono così. Certo, un po’ complicato da condensare in un tweet o in un meme sui social. E allora, che fare? Vi è un compito culturale, e diverse conseguenti aree di intervento di policy.
Il compito culturale è semplice da spiegare. In Italia il mercato non è davvero mai esistito perché – per un motivo o per un altro – è sempre stato avversato dalle culture politiche che nella Prima Repubblica rappresentavano l’85 per cento dell’elettorato. Allora occorre dapprima convincere gli italiani che il mercato non è né la giungla né il nome che sadici torturatori anglofili o tedeschi danno a loro stessi, ma semplicemente l’istituzione sociale – non presente in natura e pertanto da costruire e manutenere – che meglio di qualsiasi altra alternativa produce ricchezza, sviluppo, opportunità. A cominciare dal Sud Italia, il cui cronico ritardo costituisce il primo problema dell’economia nazionale. Una zona del paese in cui i liberal-democratici dovrebbero andare piazza per piazza a spiegare che se sono stanchi di un sistema in cui “va avanti solo chi conosce, o chi è figlio di”, se sono stanchi di veder mortificati o frustrati i propri sforzi e le proprie eccellenze, l’alternativa, udite udite, si chiama mercato. Va poi spiegato che costruire e manutenere il mercato, per assicurarsi che adempia alla sua funzione, non richiede la ritirata imbarazzata del potere pubblico, ma il suo mutamento. E anzi, la sua capacità di adattarsi a un compito infinitamente più difficile (un solo esempio: se avessimo davvero imparato la funzione di regolamentazione dei monopoli naturali che deve avere il potere pubblico, la metà dei problemi degli ultimi due anni – da Aspi alle rete unica di telecomunicazioni – non sarebbero esistiti). E dopo averlo spiegato, in un paese in cui la politica sembra non voler spiegar più nulla ma solo farsi megafono delle frustrazioni e delle paure, il mercato occorre costruirlo.
Armati di questa convinzione di fondo, occorre identificare le policies da mettere in atto nei cinque principali settori che definiscono la competitività di un sistema economico: il welfare, il funzionamento dei mercati, il sistema fiscale, il sistema formativo, l’organizzazione e governance del settore pubblico. O se preferite, vanno poi presi uno per uno tutti i grumi di polvere sotto il tappeto degli ultimi decenni, e spazzati via.
Cominciamo dal welfare. Buona parte del divario di crescita italiano è spiegata dal tasso di occupazione femminile, stabilmente più basso di oltre dieci punti rispetto alla media dei principali paesi, e dalla stagnante dinamica demografica. Allora occorre proseguire con decisione sulla strada inaugurata con l’approvazione della legge delega sull’assegno universale per i figli, al fine di strutturare al più presto un sostegno monetario forte e stabile alle famiglie per incentivare la natalità. Occorre dotare tutti i comuni italiani di una rete di servizi per l’infanzia degni di questo nome, usando a questo scopo parte delle risorse del Recovery fund. E serve poi riorientare le risorse del nostro stato sociale dagli anziani ai giovani, al fine di avere le risorse strutturali di parte corrente per poter mantenere una nuova e più potente rete di asili nido e – ad esempio – per tenere aperte il pomeriggio tutte le scuole medie e superiori per attività didattiche extra-curriculari o auto-organizzate dagli studenti, specialmente nelle zone più svantaggiate d’Italia.
E come si riorientano le risorse del Welfare State dagli anziani ai giovani? Facendo in modo che, dopo un quarto di secolo in cui ognuno delle decine di governi che si sono alternati faceva la sua propria riforma, l’intervento di stabilizzazione del sistema pensionistico che si renderà necessario dopo Quota 100 sia quello ultimo e definitivo per almeno un ventennio. Nessuno più si farà tentare dallo sfruttare la dinamica demografica (che implica un forte peso elettorale dei 50-60enni) al fine di massimizzare il proprio consenso sulla pelle della sostenibilità ed efficacia del nostro Welfare State. Cioè la classe politica prende un impegno anche oltre un normale orizzonte di legislatura, proprio perché sono in gioco interessi – quelli delle future generazioni – sovraordinati rispetto a un “normale” programma elettorale. Questo certamente servirebbe molto più che limitarsi ad applaudire Draghi quando parla di fare di più per i giovani, per poi tornare a fare esattamente quello che si è fatto per decenni.
Il ridisegno del nostro welfare dai meno giovani ai più giovani è innanzitutto una questione di equità. Nel 1998 la ricchezza media delle famiglie composte da anziani era di poco inferiore a quella delle famiglie composte solo da giovani. Oggi è dodici volte superiore. Alla fine degli anni Ottanta il reddito delle famiglie anziane era tra l’80 e il 90 per cento di quelle giovani. Oggi vale quasi il 50 per cento in più. Dal 2006 al 2018 la quota di giovani in povertà assoluta è quintuplicata, mentre quella degli anziani è rimasta ferma. Invece di accusare chiunque ricordi questi numeri di voler scatenare una “guerra generazionale”, la politica italiana dovrebbe iniziare a interrogarsi seriamente su di essi, visto che sono passati interamente sotto silenzio nel dibattito pubblico italiano.
Le risorse così risparmiate vanno allora indirizzate verso l’altro gap occupazionale responsabile del divario di crescita: quello dei giovani. Non si contano le volte in cui negli ultimi cinque anni abbiamo ripetuto che i diplomati della formazione tecnica superiore (Its) in Italia sono meno di un decimo dei tedeschi. Ma non è mai successo praticamente nulla. Perché senza risorse rimane tutto confinato alle belle intenzioni, e il giorno dopo si passa a parlare d’altro. Allora anche qui: Recovery fund per la costruzione di una rete di Istituti tecnici superiori, e risorse di parte corrente strutturali – per finanziare il funzionamento ordinario – derivanti dal risparmio sui tendenziali derivanti dalla fine del trentennale cantiere pensionistico.
Anche lo slogan “da un welfare di protezione a un welfare di opportunità” ha successo da vent’anni. Ma escluso il tentativo durante il governo Renzi, è rimasto uno slogan. È in cantiere una riforma degli ammortizzatori sociali. Ma non deve essere la sistemazione del quadro esistente, bensì una radicale rivoluzione. Via tutto il quadro frammentato e inefficiente attuale, e sostituiamolo con soli tre strumenti. Un sussidio universale per tamponare la perdita momentanea del lavoro, un assegno di ricollocazione per cambiare le competenze al fine di massimizzare la probabilità di trovarne subito un altro (assieme a una radicale riforma del sistema di formazione professionale), e un sussidio anti povertà per coloro che sono in situazioni tali da non poter lavorare. Tre esigenze diverse (rete temporanea, riqualificazione e aiuto di ultima istanza), tre strumenti diversi. Non la giungla attuale, che serve più a pietrificare la foresta invece che farla crescere, come ha efficacemente raffigurato Carlo Stagnaro sul Foglio. E che trova la sua rappresentazione plastica nel fallimento del Reddito di cittadinanza, così come è stato disegnato.
L’intervento su welfare e lavoro non può dirsi completo senza un altro evergreen dello strumentario riformista: l’incremento del peso della contrattazione di secondo livello rispetto a quella nazionale, accoppiato a una migliore regolamentazione della rappresentanza delle sigle sindacali. Il secondo livello è quello dove è più facile trovare l’incontro tra salario e produttività, il cui disallineamento è il principale fattore che incide negativamente sulla competitività di un sistema. Specialmente in una situazione – quale quella italiana – in cui la distribuzione di produttività è così geograficamente eterogenea. Il ruolo della contrattazione nazionale non deve sparire, ma deve convergere verso una rete di protezione unica, in primis riguardante il salario minimo, che è sempre meglio far decidere dalle parti sociali che non da una legge.
In conseguenza dell’analisi fatta in premessa, e della ritrosia ad accettare il mercato come mezzo naturale per l’allocazione delle risorse, la struttura produttiva italiana nel suo insieme è ancora troppo sbilanciata verso produzioni a basso valore aggiunto, che non sono più competitive sul mercato globale. Questo dato nasconde in realtà – e per fortuna – un’enorme variabilità: una parte consistente del tessuto imprenditoriale (che occupa più del 20 per cento degli addetti) sui mercati internazionali ci sta da tempo, e molto bene. La rimanente parte o si barcamena come può (ed è la parte maggioritaria) o è fatta di aziende tenute in vita artificialmente tramite sussidi pubblici monetari o regolamentari.
Questo accade, come più volte spiegato da tantissimi commentatori anche su questo giornale, perché nella nostra economia capitale e lavoro non si muovono velocemente dai settori in declino ai settori in crescita. E questo a sua volta succede perché nessuna forza politica trova politicamente più redditizio prospettare a un lavoratore licenziato o a un imprenditore fallito la concreta possibilità di trovare un nuovo impiego del proprio lavoro o del proprio capitale (in cui essere più “felice” di prima) rispetto alla promessa di preservare il più possibile lo status-quo, che per quanto possa essere indesiderabile almeno evita di rimettersi in discussione. Una transizione che il potere pubblico non accompagna (e accorcia), ma di fronte alla quale l’individuo è lasciato solo con le proprie paure. Che non a caso si indirizzano o verso la rabbiosa contestazione (la risposta populista) o verso la conservazione (la risposta socialdemocratica).
I liberal-democratici credono invece che sia arrivato il momento di annunciare che nessuno verrà lasciato solo durante il cambiamento, ma che nessuno potrà considerarsi esente da esso. E intendono, tra le altre cose, tornare all’impegno di approvare annualmente una legge sulla concorrenza, in cui gradualmente si danno piccoli ma costanti colpi alla miriade di rendite di posizione che corrodono la nostra economia e impediscono non solo il dinamismo di cui sopra, ma anche la fornitura di efficaci servizi ai cittadini. Si pensi al settore del trasporto pubblico locale, che milioni di cittadini incontrano quotidianamente, su cui occorre una vera rivoluzione: ridisegno delle competenze regolatorie, rivoluzione tecnologica, apertura alla concorrenza.
Il sistema fiscale italiano, dopo decenni di interventi scoordinati e motivati esclusivamente dalla necessità di finanziare una crescente (e perlopiù improduttiva) mole di spesa corrente, è uno dei principali impedimenti alla crescita. Serve un’azione coordinata e contemporanea sulle tre imposte principali: quella sui redditi delle persone fisiche (Irpef), sulle società (il combinato Ires+Irap) e sul valore aggiunto (Iva).
L’Irpef non si cambia, si abbatte. E si ricostruisce daccapo. Quasi mezzo secolo di interventi selettivi, parziali e marginali (quali quelli che qualcuno immagina anche in questa fase) hanno prodotto uno dei sistemi di imposizione sul reddito più farraginosi e complicati al mondo. Oltre che iniquo e inefficiente. Ai tanti che vaneggiano di una scarsa progressività dell’attuale Irpef andrebbe ricordato che già nei decili di reddito annuo intorno ai 20.000 euro la media delle aliquote marginali effettive supera il 40 per cento. Con questi livelli di imposizione fiscale al margine sul lavoro, il principale fattore produttivo, pensare di tornare a crescere a livelli sostenuti è semplicemente utopia.
Serve allora una riforma radicale, che partendo da un foglio completamente bianco si chieda come debba essere l’imposta sul reddito nel 21esimo secolo: semplice, leggera, accountable e che incentivi il lavoro (per chi è interessato alla proposta concreta di Italia viva, la può trovare nell’articolo sul Foglio del 20 gennaio scorso, “Sfidare i populisti con una frustata fiscale”). Parallelamente, va riformato il sistema per i lavoratori autonomi e le imprese individuali soggette a Irpef. E le idee di Ernesto Maria Ruffini (accennate quest’estate sui principali quotidiani) sono un ottimo punto di partenza per raggiungere l’obiettivo di un fisco semplice e orientato alla crescita.
La media della tassazione sulle imprese nell’area Ocse è poco sopra il 20 per cento. Noi, sommando Ires e Irap, sfioriamo il 28 per cento. I liberal-democratici si pongono come obiettivo di scendere un gradino sotto la media Ocse entro i prossimi cinque anni. Se poi questo obiettivo dovesse essere raggiunto abolendo l’orrida Irap (l’imposta più distorsiva di tutte), sarebbe meglio. E infine, l’Iva. Dobbiamo chiederci se sia ancora ottimale avere quattro diverse aliquote (4, 5, 10 e 22 per cento), o se non sia meglio convergere a un’aliquota unica, che eliminerebbe alla radice anche molte possibilità di elusione.
Se lo scenario è questo, allora diventano politicamente fattibili anche un altro paio di policy che, in mancanza di un intervento strutturale e radicale, finirebbero invece solo per continuare la serie di perversi incentivi all’evasione: vale a dire un’operazione-verità sulla riscossione (intervenendo sul magazzino della riscossione, che oggi ammonta a 954,7 miliardi di euro di cui solo 79,6 passibili di attività di recupero) e sul contante, favorendone la regolarizzazione e accoppiandolo – ora sì – al deciso passaggio verso la digitalizzazione dei pagamenti.
Il sistema di formazione del capitale umano (scuola e università), con la rilevante eccezione del tentativo – poi prontamente ammazzato – de La Buona Scuola nel 2015, in questo paese da tempo immemore conosce una sola policy: aumentare le risorse, da usare esclusivamente per stabilizzare il personale, possibilmente senza concorso. Fine del discorso. Chiunque si azzardi a proporre qualsiasi altro intervento, anche comprensivo del punto precedente (come lo fu appunto La Buona Scuola) viene crocifisso sulla pubblica piazza.
I liberal-democratici non hanno paura di dire che questo modo di fare è finito per sempre. E se non volete votarci, pazienza. Vorrà dire che prenderemo il voto di quegli insegnanti – e per fortuna sono la maggioranza – che non si rassegnano a essere pagati come il collega che entra in classe e si mette a fare i cruciverba, o che vive il suo lavoro come una svogliata attesa della pensione. Le policy coraggiose sulla scuola non mancano, basta leggere i contributi che continuano a dare Francesco Luccisano e Marco Campione, il cui confronto diretto con il titanico mondo della conservazione scolastica non ne ha intaccato l’indomito spirito riformista. Investimenti in infrastrutture e digitalizzazione, massiccia introduzione della valutazione e della differenziazione di carriere del corpo docente, apertura pomeridiana degli istituti, ripristino e rafforzamento dell’alternanza scuola-lavoro.
Se il tentativo de La Buona Scuola è del 2015, l’ultimo intervento strutturale sull’Università è di cinque anni prima (la riforma Gelmini), e fu solo un timido passo nella direzione giusta. Anche qui non bisogna aver paura di bestemmiare: gli atenei sono ormai realtà di mercato. Che, contrariamente a quanto si pensa, non vuol dire che sono colonizzati da miliardari texani che fanno entrare solo chi c’ha i soldi, ma semplicemente che competono su scala ormai internazionale sia per approvvigionarsi degli input (studenti, docenti, fondi di ricerca) sia per piazzare gli output (pubblicazioni, placement dei laureati e gli stessi fondi di ricerca che servono per riavviare il processo produttivo). E facendolo, si confrontano naturalmente con le dinamiche di domanda e di offerta. In una parola quindi, sono realtà di mercato.
Ciononostante, l’infrastruttura giuridica che ne regola il funzionamento – il diritto amministrativo – è specificamente fatta per regolare le realtà non-di-mercato. Questa contraddizione insanabile – responsabile del fatto che a oggi il reclutamento di un futuro premio Nobel segue le stesse dinamiche del reclutamento di un geometra comunale, con tutto il rispetto del mondo per quest’ultimo – si risolve in un solo modo: trasformiamo gli atenei in fondazioni di diritto privato a capitale interamente pubblico, e lasciamoli liberi di vivere e vincere la competizione internazionale. Allo stesso tempo, operiamo un deciso potenziamento del sistema di diritto allo studio, possibilmente centralizzandone la gestione a livello nazionale.
Se le università devono uscire dal perimetro del diritto amministrativo, il resto della pubblica amministrazione ha bisogno di una massiccia revisione dell’infrastruttura giuridica che ne governa il funzionamento, che nei suoi tratti fondamentali non è poi cambiato molto rispetto a quando lo importammo da Napoleone nel XIX secolo. Ma la rivisitazione del diritto amministrativo è solo una delle direttrici di azione per un ammodernamento complessivo del settore pubblico italiano e della sua governance. In tempi in cui l’apogeo del riformismo istituzionale sembra essere presentarsi sui social con lo scalpo di 345 parlamentari lasciando perfettamente intatto tutto il resto, i liberal-democratici dovrebbero avere il coraggio di mettere nero su bianco la riforma dei regolamenti parlamentari, il monocameralismo, una legge elettorale che massimizzi la possibilità di avere maggioranze stabili in grado di durare cinque anni, lo statuto dell’opposizione. E soprattutto, la rivisitazione completa di quali sono e come stanno insieme i livelli di governo subnazionali di questa Repubblica.
Dopo un quarto di secolo di fallimentare stagione cosiddetta federalista, serve mettere una volta per tutte la parola “fine” alla stagione delle competenze concorrenti, della commistione dei gettiti fiscali tra diversi livelli di governo, di prevalenza della spesa storica, di trasferimenti che arrivano un anno per un altro, di presunta autonomia scollegata da vera responsabilità dei livelli di governo. I liberal-democratici sognano un’Italia con 5.000 comuni (non 8.000), titolari di funzioni esclusive, dell’intera tassazione sul patrimonio immobiliare, e di fondi perequativi che assicurino lo stesso livello di partenza a tutte le municipalità. E liberi dai mille vincoli che ancor oggi permangono su quante penne si possono comprare o quanti dirigenti si possono assumere, motivate semplicemente dall’assenza di ogni forma di esplicita o implicita responsabilità/accountability sulle scelte che ogni amministratore compie. I liberal-democratici sognano 15 regioni (anziché 20), titoli di esclusive funzioni di programmazione e di gestione di funzioni di area vasta (eventualmente da delegare) e titolari di una compartecipazione al gettito delle imposte indirette, aggiustate da fondi perequativi come per i comuni. La pandemia ci ha dolorosamente insegnato che una repubblica non è tanto più federale quanto più decentra a livello subnazionale. Ma lo è quanto più accoppia autonomia e responsabilità.
Come avevo annunciato in premessa, quasi nulla di quello che il lettore ha fin qui visionato non è già stato proposto, annunciato, dibattuto almeno un centinaio di volte negli ultimi vent’anni. È la maledizione di un paese a cui i cambiamenti radicali piacciono un sacco, a condizione che non vengano mai attuati, né che ci vadano troppo vicino. Alla fine è quasi sempre prevalsa la vecchia abitudine di rendere la politica l’arte del galleggiamento tra un’elezione e un’altra, accontentando a turno questo o quel gruppo sociale, e rifiutando ogni forma di cambiamento graduale ma costante e radicale delle dimensioni della vita pubblica. Il tutto sempre mascherato da rivoluzionari proclami di cambiamento, in ossequio al motto degli ultimi decenni: conta quello che appare, non quello che è.
Ma stavolta, forse, è diverso. La polarizzazione delle offerte politiche che sembra ormai ben avviata in Italia pone i liberal-democratici di fronte alla scelta finale: appoggiare una delle due nel tentativo di conquistarne l’egemonia (o limitarne i danni), oppure costruire con coraggio e pazienza un’offerta politica alternativa, che non rinunci alla missione ultima della politica. Che nasca dal caos in cui ci ha gettato la pandemia ma che abbia il respiro e il coraggio di affrontare e risolvere tutti i problemi italiani, i quali invece non nascono né dal Covid-19, né dalla crisi del 2008, né dall’ingresso nell’euro. Un’offerta politica, ne sono convinto, potenzialmente maggioritaria. Se abbiamo voglia e coraggio di costruirla, mettendo l’interesse del paese davanti a tutto il resto.
Luigi Marattin, napoletano, 41 anni, è professore di Politica economica. Deputato eletto nelle liste del Pd, dal settembre 2019 fa parte del gruppo parlamentare di Italia viva. Dalla fine di luglio è presidente della commissione Finanze della Camera.