“Quando ricevo una telefonata e poi nessuno parla, capisco subito chi è: Davide Casaleggio”. Beppe Grillo, con questa battuta graffiante e forse benevola, descrive così agli amici il figlio di Gianroberto. Il rampollo silenzioso e sotto attacco, l’erede che nel M5s nessuno (o quasi) riconosce più. Dai peones che si sono fatti corrente pur di abbattere il totem di Rousseau e non pagare più i 300 euro all’omonima associazione fino ai big che in tutti gli interventi pubblici e nelle interviste, tra le righe, gli mandano messaggi sulla piattaforma che deve adeguarsi al passo dei tempi e soprattutto sulla guida collegiale del Movimento che a Casaleggio jr proprio non va giù. “Con una segreteria diventiamo un partito”, si sfoga in queste ore con i conoscenti più fidati, dopo che, come tutti i mercoledì, anche questa settimana il signor Davide è piombato a Roma, per sondare il terreno e (soprattutto) se stesso.
Un’agenda burocratica, ma senza grandi incontri pesanti in agenda: Vito Crimi, i capigruppo di Camera e Senato, i tesorieri. Blitz misteriosi, tanto che in molti parlamentari hanno subito chiesto informazioni ai commessi di Montecitorio, dopo che la sagoma di Davide è stata intravista mentre saliva agli uffici del gruppo del M5s: ma chi sta vedendo? Con chi parla?
La novità di questo pellegrinaggio è però un’altra. Davanti al muro dei Di Maio, delle Taverna e dei Fico sul futuro del M5s, il presidente di Rousseau inizia a mostrare segnali di rabbia. Non un’esplosione violenta, ma sfoghi figli di frustrazioni forse sedimentate. “Ingrati”, è l’aggettivo rivolto a chi tra senatori e deputati contesta il ruolo della piattaforma. “I 300 euro mensili – racconta chi ha raccolto la rabbia e l’orgoglio di Davide – servono a mandare avanti la baracca, ma queste cose nessuno lo sa: la preparazione delle liste e le loro verifiche con i certificati, la gestione della piattaforma, i dipendenti dell’associazione”. E invece c’è chi – come Emanuele Dessì, braccio ambidestro di Paola Taverna – vorrebbe staccare il M5s da Rousseau, regolando il rapporto con un contratto di servizio. Una scissione dei destini, insomma. Con una parcella calcolata sul numero degli eletti, destinati dunque a diminuire con il taglio dei parlamentari. Casaleggio, mentre fa la spola tra i palazzi del potere che lo accolgono con diffidenza, è arrabbiato. E ultimamente sempre più di frequente medita il gesto clamoroso, il grande vaffa a tutti. “Vorrei vedere come farebbero tutti coloro che mi criticano a portare avanti il Movimento senza di noi. Vorrei vedere”.
Minacce e sfoghi. “Sarebbe un finale rock”, dice Max Bugani, già collaboratore strettissimo di Gianroberto, a proposito di uno scenario troppo, troppo pulp. E però la voglia di mandare al diavolo gli “ingrati” c’è, eccome. “Ormai Davide si è ridotto a essere lo sponsor di un fantasma: Alessandro Di Battista. Senza capire che ormai tutti noi andiamo, e andremo, in un’altra direzione”, dicono i fedelissimi di Luigi Di Maio.
In mezzo c’è la guerra per cambiare lo statuto. Con gli anti-Dibba che temono il blitz su Rousseau per mettere al voto la conferma del capo politico contro “l’ufficio politico”, come lo chiama il viceministro Stefano Buffagni a cui sta toccando la mediazione tra il figlio del fondatore e il resto delle truppe in rivolta, con generali al seguito. Che il dentifricio sia ormai uscito fuori dal tubetto, è chiaro a tutti. I focolai si accendono che è una bellezza. L’ultimo ieri alla Camera durante l’approvazione del dl Semplificazioni: quaranticinque, tra giustificati e non, hanno marcato visita, e addirittura quattro hanno votato contro. Nomi non troppo di rilievo (Andrea Colletti e Fabio Berardini, intervenuti anche in dissenso dal gruppo, ed Elisa Siragusa, eletta all’estero), tranne quello di Marco Rizzone, il deputato genovese travolto dal caso del bonus Inps da 600 euro. Sembrava dovesse abbandonare i compagni del M5s, e invece, al rientro dalle vacanze estive, s’è ritrovato a sedersi insieme a loro, tra l’imbarazzo e l’incredulità generale. Per dire di un partito che ormai non riesce più neppure a espellere i suoi ragazzi che sbagliano.
Il tutto, peraltro, alla vigilia di un assai probabile sfarinamento. Perché, a quanto pare, una manciata di deputati – spinti dalla pugliese Francesca Troaino – delusi dal mancato accordo col Pd sulle regionali, starebbero organizzando un evento per il 22 settembre, per annunciare il loro abbandono dal Movimento. Il caos è tale che neppure sulla madre di tutte le battaglie grilline si è riusciti a convocare in un’unica piazza i vari big del M5s: che sabato prossimo, alla chiusura della campagna referendaria per il taglio dei parlamentari, staranno sparpagliati in giro per l’Italia. Ma Casaleggio rimarrà a casa.
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