Che l’italica maestria di conciliare l’inconciliabile, di annullare le distanze fisiche e politiche, fosse esercizio assai pericoloso, nella prassi diplomatica, Giuseppe Conte lo aveva forse già capito a gennaio scorso, quando nello stesso pomeriggio volle provare a incontrare, a Palazzo Chigi, prima Haftar e poi al-Serraj, come se fossero due comari litigiose da dover riamicare, e non due nemici che si contendono la Libia a colpi di mortaio. Finì come si sa, infatti, con l’indignazione del premier di Tripoli e le risate di gusto che risuonarono alla Farnesina di Luigi Di Maio, dove rimbalzavano battute velenose su quel Giuseppi che voleva sentirsi come il Cav. di Pratica di Mare, mettere una sull’altra la mano di due rivali. Che è un po’ quello che forse è successo anche due giorni fa, quando il premier ha voluto annunciare al Foglio che sul caso Navalny lui sta con Angela Merkel, nel pretendere chiarezza e verità, ma al tempo stesso, con agile mossa, precisava che s’era comunque fatto assicurare da Vladimir Putin che, sì, la Russia aveva intenzione di istituire una commissione d’inchiesta per fare luce sull’avvelenamento dell’oppositore del Cremlino. Un po’ come quando Berlusconi si faceva concavo con Ankara e convesso con Bruxelles, piantava la cancelliera tedesca sulle rive del Reno perché nel frattempo, diceva, gli toccava ammorbidire Erdogan.
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