Le vere radici degli scandali leghisti
“Commercialisti ladroni”. La lunga e complicata storia del partito del Senatur e ora del Capitano con i soldi
Milano. “La banda dei commercialisti”. “Bancari ladroni”. Potrebbero essere slogan da comizio di quelli che piacevano tanto a Umberto Bossi e funzionavano bene, il più delle volte a dispetto dei fatti. Ma il Senatur non conta più e la vecchia guardia è quasi sparita, la Lega per Salvini è un’altra storia. Però la storia, per i partiti ben radicati nella propria terra, ha legami forti, difficili da recidere, e c’è una sorta di Dna che fa somigliare i padri ai figli. L’inchiesta “dei commercialisti” avrà sviluppi che attenderemo senza particolare ansia, vaccinati come siamo dal metodo inquisitorio applicato a faccende di politica e quattrini. Anche perché, al momento, l’acquisto a prezzi secondo l’accusa gonfiati, e con un giro di prestanome, di un capannone per la Lombardia Film Commission non pare una maxitangente.
L’aspetto potenzialmente più preoccupante, per la Lega, sono i molti collegamenti di inchieste che da quella storia potrebbero nascere, dalla sparizione dei 49 milioni al Russiagate, di cui si erano un po’ perse le tracce ma che ora ritroverebbe, si scrive, nuovi legami con questa nuova vicenda. L’aspetto complicato, per Matteo Salvini, sta in questa ramificazione. Perché da un lato tutti i personaggi coinvolti hanno rapporti incrociati, e molti sono riconducibili al leader leghista, anche se non a un vero “cerchio magico” di bossiana memoria. Sull’altro lato, la vicenda della Lombardia Film Commission va però a toccare anche l’area di governo, la regione: e tutti, a partire da Attilio Fontana, hanno sempre tenuto distinta la Lega degli amministratori da quella di comizio.
Gli sviluppi giudiziari si vedranno, ma la storia della “banda dei commercialisti” consente di illuminare quel Dna che accomuna le due Leghe, e il complicato rapporto tra la sua classe politica e il denaro. La storia dei guai della Lega è antica e quasi romanzesca, comincia nella Prima Repubblica con il processo Enimont che fruttò una lieve condanna a Bossi (“ingenuità, stupidità, o pirlaggine”, si diceva allora). Prosegue con il madornale pasticcio della Popolare CrediEuronord, per il cui lancio Bossi mise la faccia in pubblicità, “Sono socio fondatore della CrediEuronord, e tu?”. La Lega penalmente ne uscì indenne, come verginità e modello economico padano un po’ meno.
Poi ci sono i conti di “the family”, i diamanti di Belsito, il Sindacato padano, fino alla madre di tutte le magagne, la scomparsa dei 49 milioni di finanziamento pubblico che i giudici sentenziano spariti. In mezzo, un rosario di amministratori piccoli e grandi finiti nelle inchieste, alcuni anche ingiustamente. Come Davide Boni, membro dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale, accusato di corruzione nel 2012 e assolto in primo grado nel 2019. Qualche altra storia è più simbolica, come quella di Fabio Rizzi, l’uomo scelto da Maroni per ripulire la Sanità lombarda, che in men che non si dica patteggiò nel 2016 nel processo per lo “scandalo dentiere”.
La “storia criminale” della Lega la si lascia ad altri. Più interessante chiedersi perché la Lega, in Lombardia, abbia una storia così. Anche la Lega del Veneto ha avuto i suoi problemi, ma non come quella lombarda. Si può dire perché è un partito nato e cresciuto senza una classe dirigente (il sospetto per i “professoroni”). O forse soprattutto perché la Lega è, ancora oggi, un partito della Prima Repubblica, un partito “pesante” che ha sempre avuto un rapporto con il finanziamento tipico di un grosso partito novecentesco. E perché è un partito con un radicamento territoriale forte. Che significa una sede in ogni paese e una filiale di banca in cui si è conosciuti. Così i nodi rischiano di venire al pettine, per Salvini.