Roma. Chi s’aspettava un atto di contrizione, o quantomeno un accenno di ravvedimento, resterà deluso. I rapporti con la Cina non vanno compromessi, le buone relazioni diplomatiche che Roma e Pechino hanno intessuto in questi ultimi anni non potranno certo essere messe in discussione per via di una vicenda opaca di dossieraggio ad opera di un’azienda privata i cui interessi s’intrecciano chissà fino a che punto con quelli del governo di Xi Jinping. Sarà insomma un esercizio di cautela, quello in cui Giuseppe Conte si produrrà martedì mattina: quando, col risultato incerto delle regionali ancora da metabolizzare, e le imprevedibili ripercussioni politiche che ne seguiranno ancora da capire fino in fondo, si recherà a Palazzo San Macuto per essere audito dal Copasir. E nel rispondere alle domande che gli verranno poste dai membri del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, il premier si atterrà in sostanza alle indicazioni contenute nelle informative che il Dis, il dipartimento dell’intelligence guidato da quel Gennaro Vecchione che del fu “avvocato del popolo” è consigliere fidatissimo, è andato fornendo in questi giorni: e insomma tenderà a ridimensionare, se non a sminuire, la portata reale degli Zhenhua leaks sui quasi 5.000 italiani spiati e schedati da parte dell’azienda tech di Shenzhen. Un’attività, quella di dossieraggio da parte di grandi imprese cinesi, che del resto non è nuova e su cui comunque i nostri servizi vigilano da tempo, e continueranno a farlo, d’intesa con le intelligence europee e anglosassoni. D’altronde, l’assunto legame tra Zhenhua e il regime cinese non giustifica azioni diplomatiche ufficiali nei confronti di Pechino: perché chiedere un chiarimento ufficiale, o addirittura convocare l’ambasciatore, significherebbe convalidare quel che per ora è ancora un sospetto, e insomma accusare chiaramente il governo di Xi. Né mancherà di segnalare, Conte, che nessuno degli altri paesi occidentali coinvolti nel caso ha finora adottato azioni men che prudenti, al riguardo.
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