(foto LaPresse)

Il libro

Autonomia sì, pero' gentile

Maurizio Crippa

Come trasformare una rissa “da tifoserie” in una riforma dell’amministrazione e della spesa pubblica. C’entrano (molto) anche le pensioni e gli accorpamenti. Un libro

Milano. Come la polvere che rispunta da sotto il tappeto dove era stata occultata sperando di farla franca, il tema delle autonomie regionali (ex federalismo) è tornato in mezzo alla stanza proprio quando sembrava essere sparito da solo. La trasformazione della Lega in partito aspirazionale nazionalista, la meridionalizzazione del governo e infine, o soprattutto, la cattiva performance della Lombardia e di altre regioni nella gestione del Covid, con relative e non sempre perspicue polemiche, erano sembrate una pietra tombale sopra un dibattito “con piglio di tifoseria” durato decenni. Inoltre, il coronavirus ha fatto fare una scoperta agli italiani: “Lo stato esiste! In questo momento di grande disorientamento i cittadini hanno ritrovato nello stato, spesso tanto vituperato e assimilato a un patrigno esoso e tiranno, un punto di riferimento prezioso. Un gestore dei beni più importanti: la salute e la vita”, come scrive Alberto Brambilla nel libro di cui andiamo a parlare. 
 Poi è arrivato il plebiscito per Luca Zaia, il più autonomista dei governatori, e prima era arrivato il buon lavoro, di gran lunga il migliore in Italia, fatto dalla Sanità della regione Veneto nell’epidemia da Covid, di fronte a cui anche i più grevi statalisti avevano dovuto arrendersi. Poi è venuto il fatto che Zaia ha svuotato di senso e di voti (in Veneto) il partito di Salvini, tanto da diventare un beniamino tattico pure per una parte della sinistra. Il che non indurrà Zaia ad essere meno autonomista, né il nord a essere meno convinto delle sue ragioni; casomai convincerà Salvini, per tattica, a essere meno distratto su uno dei temi più cari alla sua constituency. Da ultimo è in arrivo la riforma cosiddetta dell’autonomia differenziata cara al ministro Boccia. Così il tema dell’autonomia, nelle istituzioni e nei carichi fiscali e di spesa, è riemerso da sotto il tappeto. Irrisolto e interrogativo.

 

Si vedrà quale grado di risolutività avrà l’accordo sulla nuova legge quadro che il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, assicura pronto, entro ottobre in Consiglio dei ministri: “Dobbiamo far tesoro del lavoro portato avanti in questi mesi sulla pandemia. Nonostante la tensione per la gravità della situazione, presidenti di regione, sindaci, esperti e governo hanno sempre collaborato, dobbiamo continuare a farlo’’. Il cuore economico dell’accordo, ha fatto sapere Boccia, consiste nell’attuazione del decentramento amministrativo, “sottraendo però le materie per cui dovranno prima essere individuati i cosiddetti Lep, ovvero i Livelli essenziali delle prestazioni”. Cioè scuole, trasporti locali e servizi sanitari. Concetto ovviamente ineccepibile e nessuna possibile autonomia, essendo all’interno della costruzione statale nazionale, può essere concepita senza perequazione tra regioni ricche e regioni che invece faticano a garantire i Lep. L’unico problema, stando alle parole del ministro, è che “sappiamo, secondo alcune stime, che per colmare questa distanza tra ‘ricchi’ e ‘poveri’ occorrerebbero tra i 70 e 100 miliardi’’. Il che, nel margine basso dei 70 miliardi, è più o meno quanto le regioni del nord denunciano di “spendere” già in disavanzo fiscale a favore delle altre regioni. Insomma si torna al punto di partenza: come ci dividiamo la torta, in modo equo ma soprattutto funzionale? Problema a cui è stato inchiodato per trent’anni un dibattito ideologico inconcludente, e che da oltre cinquanta causa l’impossibilità di risolvere problemi economici e amministrativi. Il risultato per tutti, autonomisti e centralisti, è stato un progressivo impoverimento del paese. Che per il sud ha significato meno sviluppo e più spesa improduttiva, e per il nord meno possibilità di partecipare alla corsa globale con armi pari a quelle della Baviera, o della Svizzera.

 

Che sia venuto il momento di cercare un altro modello, pena l’asfissia nazionale, lo si dice da molto. Alcune riflessioni, costruite su analisi economiche non convenzionali e a tratti urticanti, arrivano ora da una saggio collettivo, aggiornato alla nuova stagione post pandemica, curato dall’economista Giorgio Arfaras (Centro Einaudi) con i contributi di Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche itinerari previdenziali, di Angelo De Mattia ex direttore di Bankitalia, di Claudia Segre presidente di Global Thinking Foundation e da Antonio Felice Uricchio, tributarista e presidente di Anvur. Il libro (Guerini e Associati) si intitola: “L’Italia delle autonomie - Alla prova del Covid-19”. Messa subito in sicurezza la “clausola di supremazia”, di cui si è tornati molto a parlare nei mesi scorsi, (art. 120 della Costituzione: “Il governo può sostituirsi a organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”) gli autori si addentrano nella proposta di un “percorso non polemico” attorno a quello che definiscono “federalismo gentile”, cioè che rispetti un regime di “piena solidarietà”. Inquadrando storicamente le condizioni di differenza tra nord e sud – ma ricordando che differenze tra regioni e regioni esistono ovunque in Europa, il problema da noi è che non c’è stata alcuna evoluzione reale – Giorgio Arfaras spiega in che modo e perché, finché il paese è stato economicamente e demograficamente in crescita, il Meridione abbia costituito per il Settentrione un mercato di sbocco e una riserva di manodopera, avendone in cambio una quota parte di ricchezza. Ad esempio, nell’annosa polemica sullo “stato assistenziale” (“Sussidistan” va di moda dire adesso) va notato che l’enorme debito pubblico italiano non è dovuto tanto alla crescita delle spese dello “stato sociale” che hanno avuto un andamento storico in linea con quelle di altri paesi, ma per la minor crescita delle entrate fiscali rispetto a quegli stessi punti di riferimento. Dunque minore sviluppo, e anche minore introito fiscale. Negli ultimi decenni questa “alleanza” nord-sud ha smesso di funzionare. Ciò che prima era un modello (in qualche modo) virtuoso è diventato un doppio problema: un paese con un grande spreco di spesa pubblica, e in aggiunta una forte evasione fiscale. E reso inoltre fragile dal “nanismo” polverizzato della struttura economica. Il federalismo da “tifoseria” ha la sua radice qui, nel refrain “diamo più di quel che riceviamo” che, come si sa, può essere anche ribaltato. Ad esempio oggi è molto in auge la fiscalità di vantaggio promossa dal ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Peppe Provenzano. Arfaras sintetizza, in base a un’analisi d’insieme, a proposito della ridistribuzione della fiscalità: “Nel caso di assenza di solidarietà (ogni regione vive solo del reddito che produce) quelle meridionali riceverebbero dallo stato centrale 80 milioni in meno. Nel caso di piena solidarietà (ogni cittadino riceve dallo stato tanto la media nazionale) le regioni meridionali riceverebbero dallo stato centrale 50 miliardi di euro in meno”. Inoltre, “se si facesse un’analisi per regione singola, non tutte le regioni del nord sarebbero ‘donatrici nette’ e non tutte quelle del sud ‘prenditrici nette’”.

Il problema dunque, più che politico o soltanto di architettura istituzionale, è di come si sperperano o andrebbero distribuite le risorse. Cruciale, in questo, è il saggio di Alberto Brambilla, specialista del settore, che si occupa di una analisi regionalizzata dei bilanci. Che è del resto un obbligo previsto dai regolamenti comunitari, anche se, scrive l’autore, “ancora oggi, per una serie di motivi tra l’ideologico e l’ignavo interesse politico, la regionalizzazione è molto controversa nel nostro paese”. Ma solo guardando nel dettaglio si può comprendere l’effettiva condizione di disparità del tessuto sociale ed economico italiano. Le famose differenze regionali. E si entra in un settore delicato, e anzi “minato” per la politica, quando si argomenta che la metà delle pensioni erogate dall’Inps sono sociali e di invalidità, ossia redditi che non sono stati finanziati da versamenti pregressi, quindi redditi di natura assistenziale e che quindi pesano sulla sola fiscalità generale. In realtà, va detto la spesa pensionistica italiana, al netto di quella assistenziale, è addirittura leggermente inferiore a quella media degli altri paesi europei. Ma poiché in Italia, per una sorta di “masochismo contabile” entrambe sono in capo all’Inps, tutti ritengono che l’Italia paghi più pensioni e quindi che debba riformare il sistema. Guardando lo spaccato territoriale, Brambilla spiega però che è sbagliato trattare l’Italia “come se il paese fosse omogeneo… Ma intervenire, ad esempio, sulle pensioni di anzianità, significa incidere sul 70 per cento delle pensioni erogate al nord e meno del 10 per cento di quelle pagate in tutto il sud; sulle assistenziali i differenziali sono gli stessi ma con una grande prevalenza per il sud”. Detto molto in soldoni, se tutte le regioni fossero più produttive, quindi in grado di sostenere la propria spesa pensionistica – e se l’evasione generale fosse riportata a livelli fisiologici – il sistema delle perequazioni troverebbe (nel giro di una decina di anni, si ipotizza) un proprio equilibrio. Non è l’unico problema, ovviamente. Oltre alle (forse troppe) venti regioni, comprese quelle a statuto speciale, l’Italia è divisa in una miriade di province, enti, comuni, e ognuno diventa capitolo di spesa, spesso senza una precisa razionalità. Mettere mano a un riordino amministrativo, tanto più dopo le mancanze e le confusioni viste con l’emergenza Covid, è decisivo. Come scrive Brambilla: “Un concreto dibattito sulle autonomie non potrà che ripartire su basi nuove: da una rinnovata politica che dica finalmente la verità agli italiani; che mostri senza reticenze i bilanci regionali, chi paga e chi prende al solo scopo di rafforzare la coesione sociale; che faccia le relative riforme strutturali eliminando inefficienze, accorpando comuni e regioni, riducendo i centri di decisione e migliorando l’organizzazione dello stato”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"