In un paese come il nostro, che per Arbasino era un “paese senza” stato e senza molte altre cose, al minimo cedimento del potere centrale, esecutivo, specie in un’emergenza, corrisponde immediatamente lo spaesamento. Ora la ditta del Viagra garantisce un vaccino buono al 90 per cento, ma a parte le borse che gioiscono è escluso se ne possa fruire prima della prossima estate, e l’inverno è lungo. Si ha il diritto di non capirci più niente, l’inondazione degli annunci è scabrosa, plateale, ispira non più la composta paura dello scorso mese di marzo ma lo scomposto conflitto delle opinioni. Le regioni parlano ciascuna la sua lingua, inscriverle in una cartina colorata diseguale allo scopo di abbattere la curva dei contagi e salvare il sistema ospedaliero e di cura riabilita l’uso politico o politicante dei dati sanitari, incrociati con i bisogni economici e sfuggenti a un denominatore comune. Contano di nuovo i consensi percepiti, gli interessi legittimi delle categorie e dei settori che nel richiudere tutto si vedono annientati, alle classi dirigenti territoriali si associano poi l’ordine dei medici, che vuole la chiusura totale uniforme, e cento voci autorevoli che definiscono fuori controllo la situazione, così la paura si moltiplica in sentimenti ondeggianti, uno si isola l’altro socializza, si familiarizza l’idea di una influenza per vecchi e malati, al tempo stesso ci si ritrova sulla scala A del condominio, a scuola per i più piccini, gli effetti della moltiplicazione evidente e esponenziale dei casi, e a ciascuno si avvicina con le notizie da un amico, da un parente, questo mostriciattolo virale che si lascia trattare anche da beffa.
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