La storia

Cinque agenti della polizia penitenziaria andranno a processo per torture

I fatti sono avvenuti nell'ottobre 2018 nel carcere di San Gimignano. È la prima volta per dei pubblici ufficiali (il reato di tortura è stato introdotto nel 2017)

David Allegranti

Sofia Ciuffoletti: "Oggi, i detenuti e le detenute italiane possono avere la certezza che lo stato è dalla loro parte, che denunciare la violenza è possibile. In questo momento credo che sia ancora più importante far sentire alle persone detenute che la loro voce non è afona, che i loro diritti non sono di carta"

Oggi cinque agenti della polizia penitenziaria del carcere di Ranza, a San Gimignano, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Siena Roberta Malavasi per i reati di tortura, lesioni aggravate, falsi ideologici, minacce aggravate e abuso di potere. È la prima volta per dei pubblici ufficiali (il reato di tortura è stato introdotto nel 2017). La storia è nota ai lettori del Foglio. Gli agenti di polizia penitenziaria, nei confronti dei quali l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini espresse solidarietà senza porsi alcun problema, sono accusati di aver torturato un detenuto tunisino in isolamento per spaccio di droga che nell’ottobre di due anni fa avrebbe dovuto essere trasferito di cella. “Non si deve mai gioire quando qualcuno viene rinviato a giudizio. Eppure oggi, per la prima volta nella storia di questo paese, 5 agenti di polizia penitenziaria sono stati rinviati a dibattimento per fatti qualificati come tortura commessi nel carcere di San Gimignano l’11 ottobre 2018”, dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto e garante delle persone private di libertà personale a San Gimignano: “Si tratta del primo caso di tortura di stato in Italia dall’introduzione nel 2017. Si andrà a dibattimento e saranno accertate le eventuali responsabilità con un giudizio pieno, con le garanzie del giusto processo e del diritto alla difesa. Però, oggi, i detenuti e le detenute italiane possono avere la certezza che lo stato è dalla loro parte, che denunciare la violenza è possibile. In questo momento credo che sia ancora più importante far sentire alle persone detenute che la loro voce non è afona, che i loro diritti non sono di carta”.

 

A ottobre, il ministero della Giustizia Alfonso Bonafede, tramite avvocatura dello Stato, aveva presentato l’atto di costituzione, all’interno del procedimento per i reati contestati agli agenti, contro L’Altro diritto, l’associazione Garante delle persone private della libertà personale del Comune San Gimignano, che si era costituita parte civile con l’avvocata Raffaella Tucci (il Ministero ne aveva chiesto l’esclusione dal procedimento). Insieme all’Altro diritto si sono costituiti parte civile il Garante nazionale Mauro Palma con l’avvocato Michele Passione, e le associazioni Antigone e Yairaiha con le avvocate Simona Filippi e Simonetta Crisci. Al ministro Bonafede evidentemente l’accertamento dei fatti pareva e pare tutt'ora poco importante. Avrebbe potuto infatti costituirsi direttamente lui parte civile in quanto persona offesa, visto che gli agenti di polizia penitenziaria sono dipendenti del suo ministero, ma ha scelto di non farlo. E’ stato dunque costretto dall’Altro diritto, che l’ha chiamato a responsabile civile. Per come stanno andando le cose, Bonafede avrebbe fatto una figura migliore a pretendere chiarezza lui per primo. Ma nemmeno oggi si è presentato all’ultima udienza.

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  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.