La politica che cerca di commissariare se stessa non va alla radice dei suoi veri vizi
I fondi Ue ma non solo. Come superare l'incancrenimento delle regole di sistema che sovrintendono al funzionamento della macchina pubblica italiana
Ci siamo mai chiesti perché da un po’ di tempo a questa parte si senta il bisogno di commissariare o aggirare la rappresentanza politica? Claudio Cerasa venerdì scorso si è posto una domanda diversa ma complementare, in relazione alla pubblica amministrazione. Fornendo anche una condivisibile risposta, relativa all’incancrenimento delle regole di sistema che sovrintendono al funzionamento della macchina pubblica italiana. Ma la domanda posta in apertura è più generale. E non è mai stata posta in modo sufficientemente esplicito. Forse per paura della risposta. La delega di funzioni all’esterno del perimetro della rappresentanza politica non è un tema nuovo. Alla fine degli Anni Settanta la letteratura economica suggerì di togliere la politica monetaria dalle mani dei politici. Troppo forte, per chi deve misurarsi con il consenso elettorale, la tentazione di abbassare il più possibile i tassi di interesse per stimolare l’occupazione (o persino di stampare moneta tutte le volte che c’è da finanziare qualche spesa), rischiando così di innescare una spirale inflazionistica fuori controllo. Da allora quasi tutte le banche centrali del pianeta sono state rese indipendenti dal potere politico. Ed è stata questa intuizione ad avere archiviato probabilmente per sempre, la tassa più odiosa e iniqua: quella da inflazione.
All’inizio degli Anni Novanta l’Italia adottò o sviluppò il sistema delle autorità indipendenti, altrove già pienamente affermato. Questioni cruciali per la vita quotidiana dei cittadini – dalla tutela della concorrenza a quella della privacy o del pluralismo dell’informazione; dalla regolazione del mercato nei servizi pubblici alla vigilanza dei mercati finanziari e assicurativi e tanti altri ancora – furono giudicate troppo importanti per essere lasciati nelle mani dei politici. E nella maggior parte dei casi l’azione è stata puntuale ed efficace. Sempre a inizio anni Novanta si separarono le funzioni di indirizzo e controllo - che restarono in mano agli organi elettivi - da quelle di gestione, che furono affidate in via esclusiva alla dirigenza pubblica.
Personalmente condivido tutte e tre queste deleghe (su politica monetaria, autorità indipendenti e dirigenza pubblica), ma non posso esimermi dal notare che cosa esse davvero significhino: alcune cose erano troppo delicate per essere lasciate in mano ai depositari del consenso politico, poiché la loro importanza nel lungo periodo era incompatibile con le necessità di consenso di breve periodo che ontologicamente caratterizza la classe politica.
Negli ultimi vent’anni, tuttavia, è impossibile non notare la tendenza ad allargare lo spettro di policies sottratte alla politics. Che non si manifesta tanto in modo esplicito, perché farebbe troppo rumore: pensare ad esempio – come pur è stato proposto – di delegare anche la politica fiscale ad un’agenzia esterna sarebbe una palese violazione delle regole del contratto sociale che da qualche secolo disciplinano le società democratiche. Il tutto avviene in forma molto più implicita, cercando di prendere le vere decisioni in consessi molto ben tecnicamente attrezzati (ma privi di legittimazione popolare) per poi farli semplicemente ratificare dagli organi politici, siano essi il Parlamento (e questo è quasi sempre accaduto) che il Governo (e questa è la vera novità dell’ultimo decennio).
E questa tendenza che spiega l’“emendamento infilato all’ultimo momento” in legge di bilancio, che nessuno aveva mai visto. O quella norma del decreto legge che arriva in Consiglio dei Ministri senza essere passato dal pre-consiglio. Ed è questa tendenza che spiega la proposta di “cabina di regia” che è stata avanzata per la gestione del Recovery Fund, che crea una struttura nominata senza concorso e al riparo dal controllo preventivo della Corte dei Conti, che può sostituirsi a poteri dello Stato e può emanare ordinanze in deroga alle leggi della Repubblica (escluso, bontà loro, il codice penale).
Questo accade a mio avviso per un solo motivo. La classe politica da almeno tre decenni ha perso il controllo dei meccanismi di formazione e selezione di sé stessa, comportando un deterioramento medio della sua qualità superiore a quello delle altre classi dirigenti che compongono la società italiana. La politica, ad un certo punto della storia, ha smesso di cercare la competenza, ritenuta pericolosa per la leadership e foriera di messaggi troppo difficili da veicolare ad un elettorato che non aveva compreso la fine della stagione della spesa pubblica. Questo processo ha trovato solo il compimento, e non il suo inizio, nell’affermazione di un movimento che si faceva vanto di prendere le persone dalla strada per portarle direttamente al vertice delle istituzioni repubblicane. Come conseguenza, si è affermata l’idea che ogni cosa arrivi nel consesso politico finisca in caciara: o triturata in un dibattito mediatico che archivia i fatti per costruire un castello di slogan e menzogne (vedi il surreale dibattito sul MES), o seviziata da mille istanze localistiche e parcellizzate, incapaci di qualsivoglia visione di insieme. Basti guardare che succede alle risorse assegnate alla gestione parlamentare nei vari provvedimenti spesa: quasi sempre frammentate in piccoli interventi da qualche milione di euro, fatti apposta per rinsaldare l’unico meccanismo di selezione che conti: un bacino elettorale (settoriale o territoriale) in grado di garantire la rielezione. E se una cosa finisce in caciara quando arriva alla politica, meglio allora non farcela arrivare, se non per un passaggio meramente formale e il più nascosto possibile. Ecco quello che sta succedendo in Italia da qualche decennio a questa parte. Ed ecco la vera genesi di quanto accaduto con la “cabina di regia”. Ma la colpa non è di qualche oscura setta tecnocratica che trama contro l’interesse generale. Ma è della politica che, incapace di aver cura di se stessa, con l’interesse generale e con la competenza sembra aver perso ogni qualsivoglia genere di contatto.
Luigi Marattin
presidente della commissione Finanze della Camera, deputato di Iv