Ma casa mia dove in una stanza lavoro io, in un’altra mia moglie e in una terza mio figlio anche lui in smart working e impossibilitato a ritornare nel paese in cui usualmente lavora che cosa è: un A/2 (civile abitazione) o un A/10 (ufficio)? E se è un ufficio, almeno per buona parte della giornata, sono rispettate le condizioni di sicurezza che si esigono dagli uffici normali? Per fortuna nessuno ha posto queste domande, anzi sì, ho letto un’intervista di un sindacalista che richiedeva lo stato di infortunio sul lavoro per chi, lavorando da casa, dovesse magari picchiare la testa contro la libreria. Ma in questo 2020 sono saltati molti confini e le tecnologie hanno modificato tante altre abitudini, sia nella vita lavorativa – che non tornerà mai più come prima – sia in quella di ogni giorno. Con uno strano paradosso: mentre da un lato le disposizioni del governo, alcune francamente assurde (cito titoli di giornali: “Non sarà obbligatorio dire da chi si va a cena” e “sarà possibile fermarsi a dormire a casa d’altri”) cercavano di normare ciò che è impossibile normare, dall’altra abbiamo dovuto fare tutti, stato compreso, un largo ricorso alla fiducia reciproca e alla flessibilità dei rapporti. Mentre il cervello del burocrate si esercitava a prevedere l’imprevedibile per fortuna gli italiani si sono adattati a fare di necessità, se non virtù, almeno una strada da percorrere con un po’ di buonsenso. Sarà mai possibile estendere il metodo alla vita normale, che speriamo ci aspetti in un non lontano futuro, e improntare il rapporto fra lo stato e i cittadini a una maggiore dose di fiducia e di libertà individuale?
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