Roma. Vite cambiate, ritmi cambiati, ma anche ministri cambiati. Cambiati nei toni, nei modi e forse nel carattere dalla pandemia che ha stravolto il mondo per come lo conoscevamo prima. E quasi quasi si fa fatica a ricordarseli com'erano, quei ministri, nella foto ufficiale di quel 5 settembre 2019 (e qualcuno neanche c'era): chi sorridente, chi impacciato, chi distratto, chi intento a scambiare due parole con il vicino, tutti con l'aria di crederci e non crederci. Ma veramente stiamo passando da un governo gialloverde a un governo rossogiallo?, dicevano i sorrisi increduli su molte delle facce immortalate. Pareva quello il grande evento, e in effetti lo era, ma vai a pensare che l'evento sarebbe stato completamente messo in ombra, almeno fino alle discussioni odierne sul Mes e sul Recovery fund, dalla causa di forza maggiore alle porte. Erano altri tempi, e certo nessuno avrebbe potuto immaginare il cataclisma sanitario, economico e psicologico che nel giro di qualche mese si sarebbe abbattuto sulla compagine del Conte bis, ribaltando certezze, lessico ed equilibri. Ma prima, appunto, i volti parlavano. Si vedevano, in quella foto di fine estate, un Roberto Speranza, giovane ministro della Salute in quota LeU, forse intimidito, con un mezzo sorriso un po' dimesso; un Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali, rilassato (come mai più in questi mesi), rivolto come per dire qualcosa verso il collega allo Sport Vincenzo Spadafora. E sì, c'era il volto teso del ministro della Cultura Dario Franceschini, colui che poi diventerà uno dei sostenitori più oltranzisti della linea dura anti-Covid, al punto da applicare a se stesso un mini-lockdown al ministero (della serie: guai ad avvicinarsi). Appariva leggermente nervoso, Franceschini, quel giorno (accigliato, mento all'insù). Ma i retroscenisti avevano attribuito la posa a un retropensiero politico del capodelegazione pd sul centrosinistra che andava al governo, dopo l'estate della crisi, con gli ex nemici acerrimi a Cinque stelle. Un assetto di cui Franceschini era stato uno dei principali sostenitori. Poi, tra quegli abiti grigi, neri e polvere, spiccava il bluette dell'abito baldanzoso di Teresa Bellanova, ministra renziana dell'Agricoltura, simbolo energico dell'alleanza sempre in bilico tra i fratelli di fatto e i fratelli-coltelli tra Pd e Italia Viva (fino a oggi). Non poteva sapere, la futura capodelegazione di Iv nel Conte bis, che sarebbe stata lei, a seconda delle circostanze, la testa d'ariete o il parafulmine di ogni “verifica” ufficiale e ufficiosa. Mancava, nella foto, Lucia Azzolina, ministro dell'Istruzione che non ha avuto neanche il tempo di entrare in carica, a inizio anno, perché nel giro di un mese è arrivata la pandemia (in quel settembre invece Azzolina era sottosegretario). E proprio ad Azzolina, attaccata dalla Lega ieri come oggi, e inizialmente in retroguardia, guarderà inaspettatamente la parte di centrosinistra meno orientata verso la linea dura Franceschini-Boccia-Speranza, per ancorarsi all'idea di una riapertura a gennaio delle scuole superiori. E così la ministra dal rossetto ciliegia, che quasi non si esponeva neanche quando veniva attaccata su questioni di graduatorie e concorsi, ha cominciato a dire che la scuola non poteva “più essere Cenerentola”, e oggi scrive lettere aperte con toni solenni al popolo della scuola (incappando però in critiche trasversali sull'ipotesi di maturità senza scritti, come nel 2020).
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