Il tizio vestito da sciamano, o da vichingo (vai a sapere), s’era appena seduto sullo scranno del presidente del Congresso americano che già la prima telefonata del Pd raggiunge Luigi Di Maio alla Farnesina: “Oh, ma hai visto? Che intendi dire?”. Silenzio. Intanto alle 21.01 il putsch grottesco di Washington comincia a tingersi di dramma. Forse c’è un morto. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti (sono le 21.12) rilascia una dichiarazione di biasimo per Trump. I lacrimogeni avvolgono la collina del Campidoglio. Seguono diversi deputati, parla Enrico Letta, parla l’ex ministro Madia. Intanto Di Maio fa sapere attraverso le agenzie che “rimaniamo concentrati sulle cose reali, che interessano agli italiani”. Ed ecco allora la seconda telefonata, questa da un membro della segreteria del Pd. Pressante. “Guarda che qualcosa la devi dire”. Niente. Si fanno le 21 e 46. Persino Matteo Salvini, quello che fino a ieri indossava la mascherina con scritto “Go Donald Go” ha twittato: “No alla violenza”. E Giggino? E il ministro degli Esteri? Boh. Terza telefonata: “Devi fare una dichiarazione, subito”. Certo che la deve fare. Lo sa. E’ proprio questo il problema. Forse ci sta pensando da ore, come Totò con la lettera di Peppino. Scrive due righe e le cancella. Stavolta però il problema non è il congiuntivo. Il fatto è che c’è imbarazzo in tutto l’ex governo gialloverde, che s’era tinto di trumpismo. C’è imbarazzo tra i ministri grillini. E l’imbarazzo di Di Maio è lo stesso che prova Giuseppe Conte, già noto alla Casa Bianca come Giuseppi sin dai tempi in cui disse che “io e Trump rappresentiamo il governo del cambiamento”.
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