Emanuele Macaluso ci ha lasciati nel sonno, come aveva sempre desiderato. Aveva quasi novantasette anni. Ci ha lasciati alla vigilia del centenario di quel Partito comunista di cui è stato dirigente di primo piano e autorevole esponente della corrente migliorista. L’unità della sinistra, la centralità della questione sociale e della questione meridionale sono stati i temi distintivi del suo pensiero e del suo impegno riformatore, anche dopo il frenetico cambio di nomi sfociato nella nascita del Pd (a cui non si è mai iscritto). Qui voglio ricordare solo la straordinaria vitalità intellettuale che ha conservato fino alla fine della sua lunga vita. Essa dimostra che l’età che conta è quella della mente, mentre l’età anagrafica non è di per sé indicativa di nulla. In un paese in cui la retorica del giovanilismo ha assunto talvolta aspetti grotteschi, si tratta di una verità che non andrebbe mai ignorata. “Se non scrivo, se non comunico quello che penso, per me è come morire”, confessava Emanuele nella prefazione al suo ultimo saggio, “La politica che non c’è” (2016).
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