Quella che prima era la sua forza ora è diventata la sua debolezza. E alla fine il Parlamento incontrollabile, quel luogo confuso che gli aveva consentito di diventare indispensabile, unico punto d’equilibrio possibile, l’ha invece inghiottito. Così ieri sera, a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte alla fine ha esalato la sua parola più scabrosa e sofferta: “E va bene, mi dimetto”. Dunque stamattina salirà al Quirinale. Ma difficilmente troverà nel presidente la mappa per uscire dal labirinto nel quale s’è ficcato, nel quale l’hanno rinchiuso i partiti e i gruppi parlamentari in preda a spinte e contro spinte, attraversati da un caos nel quale si perdono tutti i punti di riferimento. E così, malgrado una pienezza calda e rumorosa gli assordi le orecchie (“mi dimetto ma ritorno a fare il premier”), l’esito di questa crisi per lui non è affatto scontato: le promesse — “ritorni tu” — valgono quel che valgono. Zero. Nessuno può garantire nulla, da tempo. E infatti Crimi e Grillo hanno difeso Conte, ma alla fine i gruppi grillini e Di Maio hanno lavorato per un altro risultato. E nel Pd Bettini e Zingaretti escludevano qualsiasi riapertura a Renzi, ma sono stati travolti anche loro dai gruppi parlamentari che non controllano. Così nel Palazzo è ritornata la doppiezza, che tuttavia non è più l’antica ginnastica di democristiana intelligenza. Ma è la manifestazione di un malessere.
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