Cinque idee concrete per una vera discontinuità di governo
Fisco, giustizia, istituzioni, pa, lavoro. La svolta non è impossibile. Ci scrive il responsabile economico di Italia Viva
La scorsa notte ho fatto un sogno. La classe politica italiana si sedeva a ragionare sulle seguenti cinque cose da fare nei prossimi due anni (escluso, ca va sans dire, un efficace Recovery Plan e una sicura uscita dalla pandemia). E sulla base di queste, riusciva a formare un governo, con le competenze necessarie per portarle a termine.
La riforma dell’Irpef. A parità di retribuzione netta, l’Irpef italiana pesa in media un terzo in più rispetto alla media dell’area euro (fonte: Confindustria e Itinerari Previdenziali). Oltre a essere incredibilmente complessa – sul sito dell’Agenzia delle Entrate le istruzioni per comprenderne il funzionamento constano di 341 pagine – presenta una forte connotazione anti-crescita. Non potrebbe essere definita diversamente un’imposta che presenta una media di aliquote marginali effettive pari al 38 per cento, con livelli (per i lavoratori dipendenti) mediamente sopra il 40 per cento già a 17 mila euro lordi di reddito annuo (fonte: Banca d’Italia). Significa che se guadagno 1400 euro lordi al mese, nel decidere se guadagnare 100 euro in più devo tener conto che me ne resteranno netti in tasca meno di 60.
L’11 gennaio scorso le commissioni Finanze di Camera e Senato – riunite per l’occasione – hanno iniziato una indagine conoscitiva sulla riforma dell’Irpef e altri aspetti del sistema tributario. Ogni settimana fino a fine giugno vengono ascoltati istituzioni, corpi sociali, organizzazioni nazionali e internazionali e i migliori esperti del settore, per effettuare una necessaria azione di studio, analisi, approfondimento e discussione propedeutica ad un rifacimento completo e radicale dell’Irpef. Assieme al completamento della riforma dell’assegno unico universale (di cui manca l’approvazione in Senato della legge delega e, poi, tutti i decreti legislativi), c’è spazio nei prossimi due anni per dare agli italiani – a mezzo secolo dall’ultima riforma un fisco più semplice, più equo e più leggero.
La riforma del welfare. In Italia ci sono 33 milioni di persone (un italiano su due) di età compresa tra i 25 e i 64 anni, che quindi – potenzialmente – partecipano alla produzione del reddito. Di queste, il 40% ha un livello di istruzione basso, equivalente al titolo di studio di terza media: si tratta di 13 milioni di persone, un quinto di tutte gli individui a bassa qualificazione presenti nella UE. Ci si aspetterebbe dunque che, avendo riconosciuto la presenza di questa forte anomalia, vi sia in Italia un’attività formativa almeno in linea con le prassi internazionali. E invece, la quota di adulti che partecipa ad attività di formazione (24%) è meno della metà della media OCSE (52%). Tutti questi dati (fonte INAPP) ci riassumono i principali problemi del nostro sistema di welfare: ci sono troppe poche persone potenzialmente attive in rapporto alla popolazione, e con un livello di competenza troppo basso rispetto a quanto richiede il mondo globalizzato. Serve allora lavorare per una complessiva riforma che stabilizzi definitivamente il cantiere pensionistico (che è aperto da trent’anni esatti), al fine di riorientare il nostro welfare per utilizzi più favorevoli alla crescita: i servizi all’infanzia e le agevolazioni del lavoro femminile, la formazione continua, le politiche attive del mercato del lavoro, la riforma completa dell’attuale sistema degli ammortizzatori sociali e l’introduzione dell’imposta negativa in luogo dei sussidi per chi è abile al lavoro; lasciando il reddito di cittadinanza, aggiustato per tener conto della numerosità del nucleo familiare e della diversità di costo della vita, per le situazioni di vera marginalità.
La riforma della pubblica amministrazione. Tra i dipendenti pubblici dell’amministrazione centrale, quasi uno su due (il 45,4%) ha più di 55 anni. Quasi il doppio della media OCSE (24,3%). Significa che, nella maggior parte dei casi, quasi un dipendente su due è entrato nella pubblica amministrazione, e ha imparato a lavorarci, quando non esisteva internet. Questo è il tipico problema per cui i populisti hanno la risposta semplice: pre-pensioniamo tutti e assumiamo a go-go, e basta. Nei prossimi due anni, la maggioranza “riformista-europeista” (di cui solo il tempo dirà se potrà divenire l’avversario culturale dei sovranisti alle elezioni del 2023) ha la possibilità di dimostrare che la soluzione più semplice ai problemi complessi è dentro di noi. Ma come diceva Quelo, è sbagliata. Possiamo invece lavorare ad un enorme e storico scambio, da costruire di concerto con i sindacati del pubblico impiego ma anche degli stakeholders che beneficerebbero da un pubblica amministrazione più efficiente. Uno scambio generazionale da costruire (accompagnamento volontario all’uscita e massiccio piano pluriennale di assunzioni) ma in cambio di una riforma del modo in cui funziona la macchina pubblica: riforma del modo in cui si accede (i concorsi), si fa carriera (le progressioni orizzontali e verticali), sono organizzati uffici e competenze, si viene retribuiti, si viene formati per entrarci (la Scuola Nazionale di Amministrazione), delle modalità di interazione – a due direzioni – con le carriere nel mondo privato.
Riforma della giustizia. Secondo i dati del The 2019 EU Justice Scoreboard L’Italia è il paese dell’Unione Europea con la maggior durata dei procedimenti contenziosi civili e commerciali in tutti i gradi di giudizio (per quanto concerne la Cassazione, siamo a circa 4 volte la media europea). Il prossimo governo ha l’occasione storica di sottrarre la giustizia dalla contesa politica (berlusconiani Vs anti-berlusconiani) o sloganistica (giustizialisti vs garantisti) - in cui è stata disgraziatamente confinata negli ultimi trent’anni – per considerarla per quella che è: uno dei maggiori freni alla competitività del sistema paese e all’equità sociale. Ogni aspetto della giustizia va riformato alla radice, e due anni sono il tempo giusto che serve per capire esattamente dove e come agire: il versante civile (con l’estensione del rito sommario di cognizione), quello tributario (con l’istituzione della magistratura tributaria e la codificazione delle norme), quello amministrativo (vincendo la sfida della digitalizzazione ma anche semplificando alla radice le strutture del diritto amministrativo) per finire a quello penale.
Riforma istituzionale. Il prossimo sarà il 67esimo governo in 75 anni di vita repubblicana. In questo lasso di tempo la Germania ha avuto nove primi ministri, noi 29. Gli italiani sono ormai abituati ai governi precari, all’orizzonte di brevissimo periodo, al rito dei “responsabili” e delle crisi al buio o con poca luce. Ma questo – spesso desolante – spettacolo che dura da tre quarti di secolo non ci è stato consegnato da Dio sul Monte Bianco. Cacciando l’uomo dal Paradiso Terrestre, Nostro Signore non ha detto “tu donna partorirai con dolore, tu uomo lavorerai col sudore della fronte e tu, italiano, avrai governi che cambiano ogni anno”. Lo abbiamo voluto noi. Restringendo l’analisi solo alla cosiddetta Seconda Repubblica, questo accade perché da 28 anni stiamo continuando a scegliere sistemi elettorali che sono un ibrido tra due modelli (il maggioritario e il proporzionale), finendo per sommarne i difetti anziché i pregi. E’ venuto invece il momento di fare una scelta netta, a cui abbinare le necessarie modifiche costituzionali: o un sistema maggioritario a doppio turno (sul modello dei sindaci) o un sistema proporzionale. Nel primo caso serve il monocameralismo, l’innalzamento del quorum per le figure di garanzia e lo statuto dell’opposizione. Nel secondo, la sfiducia costruttiva. E in entrambi i casi serve la riforma del Titolo V e dei rapporti Stato-regione. Abbiamo due anni per fare la scelta che rimandiamo da trent’anni.
Ho fatto questo sogno, la scorsa notte. Fatemi sapere se è solo perché ho mangiato pesante, o no. Ps. Quest’anno il nostro debito pubblico supererà la soglia del 160% del Pil. Cortesemente, quindi, fatemelo – e fatecelo – sapere al più presto.
Luigi Marattin è deputato di Italia Viva e presidente della Commissione finanze alla Camera