Avere Salvini con Draghi? Non è uno scandalo, anzi
Il peso di rigenerazione che avrebbe il coinvolgimento della Lega al governo in una fase riformatrice
Il governo Draghi non è e non deve essere una formula politica tradizionale, non solo perché il mandato del capo dello stato va inequivocabilmente in questo senso. Il presidente incaricato, per le sue caratteristiche e per le circostanze in cui è chiamato a formare un esecutivo e a guidarlo, sarà un presidente del Consiglio normalmente parlamentare, ci mancherebbe altro, e al tempo stesso qualcosa di più e di diverso. La sua funzione passa attraverso il rapporto con i partiti e i gruppi di eletti, il suo ministero deve assumere l’onere generale di coordinamento e di impulso degli affari generali di ogni compagine di governo, ma la missione politica ha un elemento di straordinarietà.
Le due maggioranze possibili in questa legislatura, ben diverse e capaci di risultati ben diversi, si sono tuttavia entrambe impaludate. Non essendo aperta la via a nuove elezioni prima della scadenza costituzionale, nella situazione data caratterizzata dalla pandemia e dalla grande occasione del Recovery fund, tutto si azzera e nasce un nuovo ciclo istituzionale e politico. Ciascuno porta sé stesso e la sua storia, ciascuno è libero di aderire o no all’appello del capo dello stato e del suo incaricato, e il governo del presidente è allo stesso titolo un’espressione del Parlamento e una creatura politica particolare nata in vista di un lungo ciclo di emergenza che ha come limite minimo il rinnovo delle Camere nel 2023. Questo aspetto della questione non deve sfuggire a nessuno, anche a chi abbia considerato una disgrazia nazionale il comportamento opportunistico e demagogico, autoritario e grossolano, del Truce di governo e di opposizione.
La Lega non è solo un bagaglio pieno di consensi, è anche un mondo, un sistema di governo nelle regioni, una parte consistente del paese; è guidata dal senatore Salvini, ma non è il senatore Salvini, specie quello finora conosciuto. Un suo ingresso nella maggioranza presidenziale sarebbe connotato istituzionalmente prima che politicamente, e sancirebbe la fine certificata della tendenza populista e sovranista più esagitata e minacciosa, ciò che è nella prospettiva della politica mondiale e europea, e nell’interesse degli italiani. Non sarebbe lungimirante, nemmeno per la piccola formazione della sinistra cosiddetta radicale, che ha espresso capacità di manovra e di presenza politica e amministrativa eccellente con il ministro Speranza, porre un “veto” o un aut aut. Per non parlare del Pd e di Conte, che possono ricercare un elemento di continuità con le fasi più apprezzabili del governo e della maggioranza saltati in aria, e con lo scopo di ricostituire in qualche forma un simulacro di centrosinistra, ma non sarebbero capiti se volessero timbrare in senso strettamente partitico o di coalizione un esperimento che suscita notevoli aspettative.
Con Monti, in un altro contesto, le destre si autoesclusero dal processo. Se oggi si articolano in posizioni che arrivano alla presenza non del solo Berlusconi ma anche della Lega, questo non fa e non dovrebbe fare scandalo per dei realisti capaci di afferrare il senso di una fase o di un ciclo nuovi. Anzi, la lezione principale del Bisconte, che solo i ciechi non vedono, è stata quella di trasformare l’identità dei grillini, dall’impeachment a difesa del piano antieuro di Savona alla decisione di accompagnare con la loro presenza il governo Draghi. Nessun postdemocristiano o postcomunista che si rispetti, per usare formule obsolete ma non insignificanti, può sottovalutare simili paradossi, nessuno in generale può trascurare il peso di sistema e di rigenerazione che avrebbe il coinvolgimento della Lega in questa fase riformatrice che è il contrario delle illusioni di rottura e di risentimento che hanno alimentato la breve stagione del salvinismo finora conosciuto.