Dal sindacato al partito seppe rimettersi in discussione con il giusto equilibrio. E oggi ci lascia una lezione di grande attualità: vivere la politica con serietà, anche durante le crisi, per un dovere di coerenza
Mi resta difficile separare il ricordo umano dal ricordo politico, anche se Franco Marini merita anzitutto di essere riconosciuto da tutti noi, amici e non amici, come una figura pubblica di assoluto rilievo, un protagonista della vita democratica degli ultimi decenni, un grande riferimento per i democratici di matrice popolare e cristiana. La sua tenacia o la sua ruvidezza erano la corazza che proteggeva la vocazione a proiettare fuori dalla sfera privata un moto spontaneo di generosità e altruismo. Difficilmente, nel suo modo di agire in mezzo a piccole e grandi vicende, spesso segnate da personalismi, vi si poteva scorgere la curva del tornaconto. Non si atteggiava a uomo disinteressato, lo era nell’intimo e con semplicità, da vero figlio del popolo. Conosciamo a grandi linee la sua attività prestigiosa, anzitutto nel sindacato, poi nella sfera eminentemente politica e istituzionale. Nella Cisl è stato il più combattivo assertore di quel necessario recupero di autonomia dopo la stagione, fatta di luci e di ombre, dell’unità sindacale negli anni immediatamente successivi al ’68-’69. Un’autonomia, per essere chiari, che implicava la rottura con l’omologazione a sinistra, rispetto a schemi e linguaggi, cioè, che affievolivano l’originalità del “sindacalismo bianco”.
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