(foto Ansa)

Spazio okkupato

La crisi del voto

Giacomo Papi

Si invoca la competenza, ma si mette in dubbio che la democrazia possa produrla

Secondo alcuni, l’incarico a Draghi è un commissariamento della democrazia da parte dei poteri forti. Secondo altri, è la dimostrazione della salute, della potenza e della elasticità della democrazia nell’escogitare soluzioni immaginifiche ma legittime, anche in tempi disperati. In questo polarizzato dibattito tra apocalittici e integrati c’è un particolare che non mi sembra sia stato notato e commentato a sufficienza: i protagonisti della crisi, in gran parte, non sono stati eletti. Non è stato eletto Mario Draghi, l’italiano più autorevole che si potesse pescare, e non è stato eletto Giuseppe Conte, sedicente “avvocato del popolo” chiamato tre anni fa nel ruolo in cui Draghi è chiamato oggi, e neppure Beppe Grillo, sedicente “elevato” calato su Roma a dettare la linea agli eletti. Non sono stati eletti neppure Rocco Casalino e Alessandro Di Battista, ovviamente, il potente scudiero nell’ombra (relativa) e l’indomito ribelle che si prende la fronda giocando di sponda con Davide Casaleggio, erede non eletto del cofondatore non eletto, che però gestirà il voto su Rousseau per chiudere con una parvenza di democrazia diretta un processo che ha seguito altre strade. 

 

Che i leader non siano eletti non è una novità. E’ dall’inizio degli anni Novanta che in Italia la leadership si forma anche prima del voto e fuori dai partiti. La discesa in campo di Berlusconi del 1994 era stata preannunciata dalla chiamata al governo di Ciampi dalla Banca d’Italia e anticipava l’arrivo di Prodi dall’Iri, ma è a partire dal 2011 con Monti, Renzi, Conte e, appunto, Draghi, che lo schema diventa dominante, non solo in Italia (anche Obama e Trump, a pensarci, si sono affermati non grazie ma nonostante i partiti). Il processo di formazione della leadership politica tende sempre più spesso a configurarsi come una “democrazia dei non eletti” che non è basata tanto sull’idea dell’uomo forte, quanto su quella dell’uomo nuovo, adatto, competente, comunque esterno ai partiti. Il problema è se questa “democrazia dei non eletti” sostituisca oppure integri le procedure democratiche tradizionali. E’ se tutti questi leader auto-elevati o incaricati siano comunque espressione delle istituzioni democratiche – dalla presidenza della Repubblica al Parlamento ai partiti – la cui legittimità risiede ancora nel voto (a parte Goffredo Bettini, che non lo ha votato nessuno, ma da mesi detta la linea al Pd attraverso i giornali). 

 

Se alla base di tutto ci fosse ancora il voto, la democrazia italiana sarebbe in salute anche in assenza o scarsità di leader eletti. L’attitudine al trasformismo e la duttilità della Costituzione renderebbero l’Italia una democrazia talmente agile e solida da sapere selezionare il leader migliore anche ribaltando la volontà degli elettori (gli apocalittici potrebbero ribattere che la democrazia è così forte che per fare un golpe non ha più nemmeno bisogno dei carri armati). Il problema del voto, però, rimarrebbe. Sono ancora gli elettori a dare legittimità al potere oppure le elezioni si sono trasformate in un rituale sorpassato e inefficiente a cui continuiamo a ubbidire per pigrizia e conformismo? Le procedure attraverso cui si decide chi decide, e si dà o toglie potere, sono ancora garantite e messe in moto dai voti oppure sono il prodotto di un sistema complesso e tutto sommato opaco, su cui influiscono interessi di sistema – l’Europa, le banche, la finanza, l’industria, i sindacati (meno) – ignorando i quali crollerebbe tutto, perfino la stessa democrazia?

 

La distanza fra voto e leadership dice che se anche la democrazia non è in crisi, lo sono le elezioni, come strumento di decisione e fonte di legittimità democratica. E’ una crisi che non si deve soltanto al fatto che in Italia e in altri paesi europei le elezioni non riescono più a produrre maggioranze chiare e stabili. I partiti, le loro correnti e congressi, non sembrano più in grado di produrre leader, neppure attraverso le primarie che, almeno in Italia, potrebbero essere state l’estremo tentativo di ristrutturare, rivoluzionandolo, il potere del voto nello stabilire il comando. E’ in crisi anche Rousseau, figurarsi. E’ il consenso che non sembra più fondato sulla quantità di voti ricevuti, ma sulla reputazione, le relazioni e i like, cioè sulla viralità potenziale di un leader, sulla sua possibilità di diventare onnipresente, pulviscolare e al contempo centrale. Si invoca la competenza e intanto si mette in dubbio che la democrazia possa produrla. Il parere della maggioranza non appare più come un metodo per selezionare i migliori. Si dubita che gli elettori siano in grado di indicare, votando, i leader più adatti, che infatti sempre più spesso vengono scelti da fuori. Se il voto ha ancora un potere, il suo ruolo cambia e si ridimensiona: le elezioni non servono più a selezionare il capo, ma a tenere in vita un sistema di garanzie, duttile ma inefficiente, e a selezionarne i custodi, a partire dal presidente della Repubblica.

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