La vita è ingrata, si sa. Conte non lo vogliono i grillozzi, non lo vogliono i piddini di Siena, già non lo vuole più nessuno. Dice che non entrerà nel governo, che non farà il sindaco di Roma. E’ un “non”, un diniego cui la giustizia è denegata. Eppure è stato, dopo essersi prestato per volere del Quirinale a rappresentare da comprimario la faccia truce del primo governo populista, l’incarnazione, nel suo Bis, delle buone cose di pessimo gusto. Chioccia la voce, modesto il profilo e il curriculum, maldestra e infine litigiosa la nuova alleanza, Conte ha retto il moncone del timone di un paese alla deriva sulla rotta giusta, con il lockdown e il Recovery fund, cose che gli sono capitate e che ha però realizzato con entusiasmo moderato e senso della cosa pubblica, e ha ben governato tra strepiti, squittii e mormorazioni che non meritava. Ora deve cercare di sfuggire all’obliterazione, alla raffica dei calci dell’asino, alla cattiva reputazione che accompagna gli sconfitti.
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