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Al voto!, anzi al governo. Così il fronte del Pd pro-elezioni si prepara a Draghi

Valerio Valentini

Invocavano le urne, ora puntano sul premier: l'ipotesi di Orlando al governo, con un terzo ministero al Pd in "quota Quirinale" a Guerini. Ma per farlo, bisogna dare spazio alla Lega, chiede Mit o Mise. E intanto Giorgetti torna a Cazzago

Le grida più scomposte, come spesso accade, arrivano dalla periferia dell'impero. E così alla vigilia del voto unanime da parte della direzione a sostegno dell'ingresso del Pd nel governo di Mario Draghi, ecco che Andrea Catena, pretoriano di Zingaretti in terra d'Abruzzo, un passato nei Ds e un presente da responsabile nazionale per le Aree montane del partito, puntava il dito nientedimeno che contro Sergio Mattarella. "Mi auguro, almeno, che con l’elezione di Draghi al Quirinale tra un anno, finisca la storia dei presidenti della repubblica che, in quanto ex iscritti, pretendono di decidere la linea del Pd", scriveva Catena su Facebook. "Anche perché sia Napolitano e sia Mattarella nella versione di presidenti/segretari hanno commesso i loro errori più evidenti". 

 

Critica legittima, sia chiaro. Ma che forse arrivava un poco intempestiva, visto che nel frattempo l'aria al Nazareno era cambiata. Lo stesso Zingaretti, infatti, nella sua relazione dei ieri, inaugurando la direzione, ha respinto l'idea che nel Pd ci siano dei "malumori" rispetto all'imperativo di raccogliere l'appello lanciato da Mattarella. Semmai l'intemerata dell'abruzzese Catena ha un valore di testimonianza. Dimostra, cioè, quanto forte e diffusa sia stata la tentazione da parte di un pezzo di classe dirigente del Pd, quella più dichiaratamente "anti renziana", di indirizzare la crisi verso il precipizio che portava alle urne.

 

Del resto era il 12 gennaio, all'alba insomma delle grandi manovre di Matteo Renzi, quando Marco Miccoli, fedelissimo di Zingaretti, indicava la strada in modo chiaro e netto: "Approvato il Recovery Plan, approvato lo scostamento di bilancio e il nuovo dl Ristori, consolidato il piano vaccini, a Giugno si può votare". Così, secco, categorico. Su Facebook. Roba che, al solo leggerla, mezzo partito insorse, spingendo Miccoli, responsabile Lavoro nella segreteria nazionale, a ritrattare tutto: "Il mio non era un auspicio, ma solo l'indicazione di un rischio reale".

 

In verità, che il sottinteso di quel ragionamento fosse qualcosa di assai prossimo alla speranza, lo hanno dimostrato in tanti, in quell'area del Pd. Lo ha dimostrato più volte, ad esempio, Emanuele Felice, il responsabile economico di Zingaretti, grande fautore dell'alleanza rossogialla, che il primo febbraio scorso, quando insomma Mario Draghi era già stato preallertato da Sergio Mattarella, alla vigilia dell'annuncio della sua convocazione al Colle, ancora caldeggiava l'ipotesi elettorale. Sventolando peraltro, con toni trionfalistici, dei sondaggi che davano il fronte progressista in chiaro svantaggio rispetto al centrodestra. "Mi pare che siamo molto vicini", esultava però Felice. "Se poi recuperiamo anche Azione di Calenda, come auspico, forse siamo addirittura in vantaggio". Troppo allettante, evidentemente, la prospettiva di riprendersi il controllo pieno del partito, stilare le nuove liste, fare giustizia del renzismo residuale specie tra i gruppi parlamentari, tuttora rispondenti in grossa parte al correntone di Base riformista, guidato da Lorenzo Guerini e Luca Lotti. E pazienza se poi Matteo Salvini si prende, in un colpo solo, Palazzo Chigi, il Quirinale e il Recovery plan.

 

Ora, l'obiezione di rito merita pure di essere riportata. Minacciare le urne come unica soluzione serviva prima per far desistere Renzi dai propositi più bellicosi; e poi, una volta che la rottura s'era consumata, invocare il voto anticipato era funzionale per spaventare i parlamentari, spaccare i gruppi di Italia viva e convincere i responsabili a correre in soccorso di Giuseppe Conte. E' stato in fondo il ragionamento che lo stesso Andrea Orlando condivise coi vertici del Pd durante il comitato politico del primo febbraio. E fu in quell'occasione che proprio Dario Franceschini, di solito assai silente nelle riunioni interne, prese la parola per confutare, con nettezza di toni per lui inconsueta, la tesi del vicesegretario. "Agitando con così tanta insistenza l'ipotesi delle urne, abbiamo irritato il Colle", disse il capo delegazione dem al governo, uno che col Quirinale ha il filo più diretto. E del resto, che la via verso le elezioni fosse già stata sbarrata da Mattarella, era diventato chiaro durante le consultazioni del 28 gennaio, quando il capo dello stato aveva di fatto escluso quella soluzione durante il suo colloquio con la delegazione del Pd. 

 

E dunque, per uno di quei paradossi che spesso movimentano la politica italiana, ora che la tentazione del voto è stata archiviata, proprio quella parte di Pd rivendica - com'è giusto e com'è logico, visti gli equilibri interni al Nazareno - un posto al sole. Potrebbe spettare proprio ad Andrea Orlando, a quanto pare, se è vero che alla fine, bloccati dai veti reciproci, Zingaretti e Salvini si sono condannati a vicenda a restare fuori (e sì che entrambi avrebbero voluto, eccome). Per Orlando si parla del ministero del Lavoro, in queste ore. Ma sono ore convulse in cui le indiscrezioni si mescolano ai pettegolezzi, e insomma valgono quel che valgono. Quel che è certo, invece, è che i vertici dem, disorientati dai silenzi imperscrutabili di Draghi, cercano di capire cosa sarà di loro, e del governo che verrà, per il tramite del Quirinale. Ed è così che sarebbe maturata l'ipotesi di rivendicare al Pd un terzo ministero, oltre ai due già previsti (e destinati, pare, a Orlando e Franceschini). Sarebbe un ministero assegnato proprio in quota "Colle", e cioè quello della Difesa, dove resterebbe Lorenzo Guerini.

 

Ma per ottenere questa concessione, pare necessario che il Pd avalli una richiesta della Lega: quella, cioè, per un ministero di spesa connesso col Recovery. I Trasporti, magari, oppure lo Sviluppo economico. Dicasteri per i quali si fa il nome di Giancarlo Giorgetti. Che però, forse per scaramanzia, nelle scorse ore ha salutato tutti ed è tornato nella sua Cazzago Brabbia, nel Varesotto, a occuparsi del suo orto. Col cellulare sempre acceso, ovviamente.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.