il nuovo governo
Europeisti per davvero. Così Draghi marginalizza Salvini e prepara il nuovo Recovery
Nella Lega sale l'ala giorgettiana. In Forza Italia viene legittimata l'ala più ostile al sovranismo. E sui ministeri centrali per il Recovery il premier sceglie due tecnici autorevoli. Garofoli e Franco scelte eloquenti: erano i "pezzi di m..." del Mef, secondo Casalino. Fine di un'epoca
Di gestire i rapporti con Bruxelles, a quanto pare, vuole occuparsene in prima persona: e infatti non ha assegnato ad alcun ministro la delega per gli Affari comunitari. E anche questo dice molto di quanto l’europeismo, per Mario Draghi, non sia certo un valore di complemento, una scusa buona per giustificare una conversione politica. Lo si capisce del resto dalla composizione del suo governo, e dalla scelta non casuale operata dal premier, d’intesa col capo dello stato, di valorizzare in ogni partito le componenti più moderate, più sinceramente convinte della centralità dell’Europa. Perfino nel Carroccio, e anzi soprattutto nel Carroccio.
Dimostra infatti di avere una certa idea di Lega, Draghi. O quantomeno di volerla imporre. Perché i tre ministeri padani finiscono tutti a esponenti dell’ala giorgettiana del partito: non solo Giorgetti al Mise (depauperato delle deleghe sull’energia), ma anche la Stefani (corrente Zaia) alla Disabilità e Garavaglia al Turismo. Segnali, dunque, di un cambio di equilibrio che sta nei fatti, dentro la Lega. Con Salvini che, bloccato anche dal veto reciproco che si sono posti i vari leader di partito, deve accettare anche la conferma al Viminale di quella Lamorgese che ha sovrinteso alla cancellazione dei decreti “Sicurezza”.
Ma forse è ancor più evidente, questa tendenza europeista del nuovo governo, se si guarda a Forza Italia. Dove a ottenere un posto al sole sono tre esponenti di quell’ala del partito vicina a Gianni Letta che con più determinazione avevano auspicato, nei mesi scorsi, un affrancamento azzurro dal giogo sovranista. Gelmini alle Autonomie, Carfagna al Sud e Brunetta alla Pubblica amministrazione: una legittimazione in piena regola delle aspirazioni antileghiste di FI.
A questo, poi, vanno aggiunti anche i tecnici. E al di là di Marta Cartabia alla Giustizia, di Patrizio Bianchi all’Istruzione (pure lui entrato in rotta di collisione con l’uscente Lucia Azzolina), e di Maria Cristina Messa all’Università, colpisce la scelta di Draghi sui due nuovi ministeri. Per la Transizione ecologica, l’annunciato super ministero rivendicato da Beppe Grillo, sceglie un fisico di fama internazionale come Roberto Cingolani che gestirà anche le deleghe connesse all’energia precedentemente in capo al Mise (è salito in più edizioni sul palco della Leopolda di Matteo Renzi, ma ieri il M5s lo ha subito rivendicato e annoverato in un post). E a Vittorio Colao, già capo della task force poi rinnegata da Giuseppe Conte, assegna la responsabilità della Transizione digitale. Insomma, sugli impegni che più direttamente riguardano la sfida del Recovery plan, Draghi tiene un controllo diretto e si affida a personalità autorevoli. E in questo senso si spiega anche la scelta di Enrico Giovanni a capo di un Mit che, sempre nel contesto della nuova stagione europea, dovrà sapersi convertire su un ecologismo intelligente e non ideologico.
E il M5s? Si vede assegnare invece ministeri meno centrali nel contesto del Recovery. Di Maio conserva il suo presidio alla Farnesina, certo, e D’Incà - uomo di fiducia di Roberto Fico - il suo ruolo di metronomo come responsabile dei Rapporti col Parlamento, mentre la Dadone ottiene le Politiche giovanili. L’altro ministero di spesa grillino è quello dell’Agricoltura, dove va Stefano Patuanelli. Il Pd, invece, ottiene alla fine quel terzo ministero che tanto ha fatto tribolare i vertici del Nazareno. Orlando va al Lavoro, mentre Franceschini, tetragono a qualsiasi sconvolgimento degli eventi, conserva la Cultura (senza il Turismo). Guerini, garante della linea atlantista del partito e protetto dal Colle, resta alla Difesa.
Un ultimo, eloquente messaggio, Draghi lo invia poi scegliendo il suo ministro dell’Economia in Daniele Franco, attuale direttore generale di Banca d’Italia, e annunciando il suo sottosegretario a Palazzo Chigi in Roberto Garofoli. Persone di esperienza decennale all’interno dei ministeri che contano. Fino all'ottobre del 2018, quando finiro al centro di una campagna di delegttimazione orchestrata dalla propaganda grillina di Rocco Casalino, che li annoverò tra "i pezzi di M... del Mef". Erano i tempi in cui si vagheggiava l’Italexit e ci si affacciava dal balcone di Palazzo Chigi festeggiando il deficit allegro alla faccia dei burocrati di Bruxelles. Quei tempi, evidentemente, sono finiti.